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Recensione – Real Fiction: il lavoro più sperimentale di Kim Ki-duk

Il quinto film diretto da Kim Ki-duk presenta un lavoro estremamente sperimentale, dalle riprese che durano poco più di 3 ore fino al risultato ricco di stimoli retorici presenti nella pellicola.
Recensione - Real Fiction: il lavoro più sperimentale di Kim Ki-duk

Opera quinta della filmografia del regista coreano Kim Ki-duk, Real Fiction è un lavoro sperimentale particolarmente noto per la sua velocissima produzione, che ha portato il regista a terminare il suo film in poche ore. Un lavoro estremamente autobiografico, a partire dalla condizione presentata e fino alle immagini offerte allo spettatore, Real Fiction offre uno spaccato importante della filmografia del regista. Ma con quale risultato? Di seguito, si presenta la trama e la recensione di Real Fiction.

La trama di Real Fiction, il quinto film di Kim Ki-duk con Ju Jin-mo

Prima di procedere con la recensione di Real Fiction, vale la pena indicare innanzitutto la trama del film di Kim Ki-duk, che vede Ju Jin-mo (in un’incredibile performance ricca di sguardi bassi e violenza esplosa) impegnato nei panni del protagonista; il personaggio senza nome è un pittore di strada che viene costantemente oppresso da diverse persone in una delle piazze più popolate di Seul. Tra persone che rubano soldi e altre che lo offendono per la sua scarsa capacità al disegno, il protagonista si ritrova in un onirico scontro con la sua coscienza repressa, fino a ucciderla: da questo momento in poi inizia la sua vendetta che tenta di salvare le persone perbene, con un climax costante che lo porta ad essere sempre più rabbioso e violento. Il tutto venendo, contemporaneamente, filmato.

La recensione di Real Fiction: un autobiografismo sperimentale, ricco di stimoli retorici

Real Fiction: non soltanto il titolo del quinto film di Kim Ki-duk ma anche la chiave di volta principale per accedere a quel grande bagaglio di nozioni implicite che vengono offerte all’interno della pellicola dalla durata di poco più di 80 minuti. Un ossimoro, che mette in contrasto la realtà (autobiografica) e la finzione (il filtro della macchina da presa, onnipresente e diegetica), che rappresenta soltanto uno dei numerosi elementi retorici e sensoriali che il regista sudcoreano decide di inserire nel suo quinto lavoro, contemporaneamente una sintesi della primissima parte di carriera e un’anticipazione di tutti quelli che sarebbero stati i temi successivi nella sua carriera. In pochissimo tempo, Real Fiction è diventato un film leggendario per motivi squisitamente produttivi: girato in poco più di 3 ore, vede l’ausilio di 11 assistenti alla regia, 10 macchine da presa e 2 videocamere digitali, di cui una che si osserva all’interno di tutto il film e che si manifesta attraverso gli occhi del regista stesso, nella sua controparte femminile.

La storia dell’arte è ricca di atteggiamenti retorici di questo genere, basti pensare al mito della Gioconda di Leonardo Da Vinci che – secondo numerose letture – non sarebbe altro che la versione del celebre artista al femminile. Inseguendo tale mito, Kim Ki-duk muove i suoi passi dall’alternanza tra camere fisse, carrelli e soggettive, che si bilanciano perfettamente nella pellicola e che mostrano l’azione in climax del protagonista senza nome. I silenzi della prima parte del film, un filo conduttore della carriera del regista, sono anticipatori di un vasto universo tematico che da sempre appartiene a Kim Ki-duk, ma che qui sembra presentarsi sotto forma di un divertissment gore, quasi più intimo e personale (al netto della sperimentazione), attraverso il quale il regista esprime ed espone gran parte di quella fobia antiborghese per gran parte della sua carriera “repressa” entro regimi formali. Una pura violenza esplosa, dunque, che si traduce in forma di uccisioni sensazionalistiche e immagini emblematiche: dalla coscienza che viene uccisa con un colpo di pistola, in una sequenza quasi lynchiana, alla donna che muore su un letto di fiori, passando per l’amico-traditore che viene condannato a perire in una busta che contiene serpenti.

Al netto di qualche scelta compiaciuta di troppo, che sembra rispondere alle medesime logiche autobiografiche, e di alcune scene piuttosto frettolose nel loro concepimento, il film riesce a giungere perfettamente verso la sua conclusione. L’atto più estremo del protagonista della pellicola è uccidere il (suo) regista, privando di sguardo quel creatore che permette l’azione della sua nuova coscienza: a seguito dell’ultimo atto violento, con la soggettiva che smette di essere utilizzata nei minuti ennesimi della pellicola, la condizione dell’uomo senza nome ritorna al punto di partenza. Kim Ki-duk diceva che parte del suo odio derivasse proprio dall’incapacità di comprendere quella società che rappresentava: in fondo, il suo cinema non propone nessun tipo di cambiamento o di salvezza per i protagonisti, limitandosi a rappresentare la realtà così com’è, pur per mezzo della finzione.

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Real Fiction
Real Fiction

Real Fiction è il quinto film del regista sudcoreano Kim Ki-duk, che condensa in una pellicola dalla produzione leggendaria alcuni tratti salienti di tutta la sua intera carriera.

Voto del redattore:

7 / 10

Data di rilascio:

24/03/2000

Regia:

Kim Ki-duk

Cast:

Ju Jin-mo, Sim Yi-young, Lee Je-rak, Son Min-seok, Bae Joong-sik, Yang Seung-byeon

Genere:

Thriller, horror

PRO

L’utilizzo della soggettiva nel film
L’interpretazione di Ju Jin-mo
Il climax crescente della violenza espressa nel film
L’abbondante ricorso ad espedienti retorici per stimolare lo spettatore
Alcune sequenze appaiono concepite in modo frettoloso
L’atteggiamento auto-compiaciuto di alcune scene