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Recensione – Viaggio a Tokyo, il capolavoro di Yasujiro Ozu

Il capolavoro di Yasujiro Ozu, Viaggio a Tokyo, torna al cinema in Italia per la seconda volta: la recensione di uno dei capolavori più importanti nella storia del cinema.
Recensione - Viaggio a Tokyo, il capolavoro di Yasujiro Ozu che ha fatto la storia del cinema

SCHEDA DEL FILM

Titolo del film: Tōkyō monogatari
Genere: Drammatico 
Anno: 1953
Durata: 136 minuti 
Regia: Yasujiro Ozu
Sceneggiatura: Kōgo Noda, Yasujirō Ozu
Cast: Chishu Ryu, Cieko Higashiyama, Setsuko Hara, Haruko Sugimura
Fotografia: Yuharu Atsuta
Montaggio: Yoshiyasu Hamamura
Colonna Sonora: Kōjun Saitō
Paese di produzione: Giappone

A distanza di 9 anni dalla prima uscita al cinema in Italia, Viaggio a Tokyo di Yasujiro Ozu torna in sala, attraverso un nuovo evento che riporta il capolavoro sul grande schermo a partire dal 12 dicembre 2023. Il film in questione è stato votato, in un sondaggio realizzato da Sight and Sound, come migliore di sempre da parte del pubblico ed è universalmente riconosciuto in quanto uno dei capolavori più importanti e impattanti della storia del cinema. Di seguito vengono indicati la trama e la recensione del film di Ozu. 

La trama di Viaggio a Tokyo: il capolavoro di Ozu

Prima di occuparsi della recensione con relativa analisi di Viaggio a Tokyo, è importante sottolineare innanzitutto quale sia la trama del film in questione. 

Due anziani coniugi di provincia vanno per la prima volta a Tokyo a visitare il figlio e la figlia ambedue sposati. Entrambi sono occupati nel lavoro e non hanno tempo, né troppa voglia, di star dietro ai genitori. Neppure i nipotini apprezzano la loro presenza. Solo la vedova di un altro figlio disperso in guerra, pur essendo povera, li tratta con grande gentilezza e fa loro visitare la città. Le delusioni che emergono in questo viaggio sono sopportate con rassegnazione dalla vecchia coppia.

La recensione di Viaggio a Tokyo: il capolavoro di Ozu emblema della filosofia deleuziana

Una delle fortune più grandi a cui è destinato lo spettatore dell’oggi risiede nella capacità di concepire potenzialmente il cinema in quanto meccanismo di globalità: l’evolversi della macchina da presa e dello sguardo che si trova al di là di essa è stato un tema che ha accomunato le platee più vaste, mosse dalla volontà di scorgere, sul grande schermo, quel criterio che fosse in grado di definire l’evoluzione dell’uomo e quella della (sua) storia. Al giorno d’oggi, quello sguardo è spesso colto nel suo tentativo di guardare al di là delle epoche, da un lato grazie alle maggiori possibilità strutturali che si hanno, dall’altro in virtù di quella consapevolezza che, a posteriori, può rendere lo spettatore dell’oggi pregno della diacronia dell’essere-cinema. Viaggio a Tokyo, allora, è non soltanto il capolavoro di cui ogni spettatore abbisogna, ma anche il simbolo di quella a-temporalità che soltanto la settima arte sa restituire al suo fruitore. Di Ozu Wim Wenders diceva che si tratta di uno dei registi che è stato in grado di avvicinarsi maggiormente a quella che è la pura essenza del cinema. Nel fornire la recensione di un capolavoro come Viaggio a Tokyo, dunque, non si può che partire da tale definizione, che si desume da quella concezione pressoché perfetta di un’opera che, nei suoi 136 minuti totali, riesce ad essere sintesi completa ed emblema della filosofia deleuziana. 

Il presupposto che genera il lungometraggio è, nei fatti, piuttosto semplice: Ozu attinge dalla tradizione dello Shomingeki, il cinema sulla gente comune che viene dedicato alla quotidianità, con il chiaro intento di rappresentare l’essere-tempo di quella realtà mostrata. Un espediente deleuziano, attraverso il quale si può osservare la magnificenza di riprese indulgenti, mai giudicanti o faziose, che si occupano di restituire allo spettatore la realtà nella sua cadenza frammentata, dilatata e costantemente intrisa di conflitto. Il viaggio dei due coniugi verso la capitale è, del resto, un “venire al mondo” dei protagonisti, che si confrontano con un mondo nuovo, del tutto occidentalizzato e ormai vittima di quei meccanismi di un capitalismo imperante che definisce la quotidianità, risucchiandola in un turbine costante di attività, cambiando l’ordine delle priorità di ogni uomo. Si potrebbe dire, banalmente, di un confronto tra vecchio e nuovo, di generazioni che si scontrano in una diversa concezione dell’esistenza, di un disfacimento del rapporto genitore-figlio, ma Viaggio a Tokyo è e vuole essere anche altro; la scelta, come si diceva precedentemente, muove i suoi passi da una rappresentazione totalmente fedele della realtà, che viene mostrata attraverso i primi insegnamenti che l’arte ha saputo offrire all’uomo: l’imitazione. Quello di Ozu è allora un cinema netto, perfettamente cristallino, che si occupa di replicare, elemento dopo elemento, il mondo così come esiste, attraverso una pretesa di onniscienza che risulta essere chiara fin dagli intenti tecnici del lungometraggio: attraverso la camera fissa, che viene posizionata in modo da far abbassare l’occhio dello spettatore verso il tatami, dunque annullando ogni verticalità di rapporto ma riportando lo sguardo entro un criterio di orizzontalità, Ozu comprende perfettamente che non c’è alcuna differenza morale tra le differenti visioni della realtà, pur nel conflitto che ne è conseguenza diretta. Il capofamiglia, Shukichi, è un uomo che ben presto incontra la delusione per la vita che i suoi figli compiono: non sono realizzati come crede, non riescono a dedicargli del tempo; eppure, come afferma in accordo con sua moglie, “sono meglio di tanti altri”. Egli stesso è un uomo imperfetto, con il vizio di bere che ha perso soltanto con la nascita della sua ultima figlia, a cui si deve – se non altro – la colpa di aver trasposto verso i suoi figli un’ambizione acritica che gli aveva fatto figurare un futuro che non è necessariamente possibile, neanche nella bella Tokyo. 

L’immagine-tempo di Gilles Deleuze, che diviene esemplare nel lungometraggio in alcune scene fondamentali non solo per il film ma per l’intera storia del cinema (come quella del litigio tra padre e figlia perché il primo ubriaco, o quella del dialogo tra Tomi e Noriko, prima che le sue si addormentino), diventa immagine-movimento nel senso più puro dell’espressione, che il filosofo ritrova nel neorealismo italiano: così come nei film più rappresentativi di tale evoluzione della storia del cinema, il vagabondaggio dei due protagonisti sintetizza l’estraniazione nei confronti di un mondo che non riesce più a rappresentarli, che diventa alieno rispetto alla loro esistenza. È un vagabondaggio differente, rispetto all’errare di un film come Ladri di Biciclette, ma pur sempre significativo nelle sue tappe intermedie che sono in grado di riportare i due protagonisti alla consapevolezza di quel bisogno di tradizione, in un certo senso anche di chiusura, che la piccola città di Onomichi sa loro donare. Anche grazie ad un sonoro memorabile, che arricchisce i long-take e definisce la storia culturale del paese rappresentato – è il caso, ad esempio, degli opprimenti strumentali musicali di cui ci si serve per il funerale – Viaggio a Tokyo giunge verso la sua risoluzione, consegnando alla storia una delle immagini (Noriko in lacrime) più significative e impattanti di sempre e lasciando quella piccola porzione di mondo esattamente al punto, e al tempo, da cui l’aveva estratta. Ma con quali effetti? Una lettura immediata potrebbe quasi ritornare all’idea che il rapporto genitore-figlio non assicuri alcuna garanzia di amore, in un film che sa parlare anche di ossessione del possesso, specie nel suo finale, con gli oggetti di una madre defunta che vengono chiesti quasi fossero un premio da esporre. Eppure, Viaggio a Tokyo sa andare oltre: è cinema nella sua purezza, che non ha la pretesa e l’ambizione di cambiare la storia ma che della storia si serve per mostrare uno dei suoi significativi emblemi di realtà.

Voto:
5/5

Gabriele Maccauro
5/5
Alessio Minorenti
5/5
Vittorio Pigini
5/5

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