Articolo pubblicato il 25 Novembre 2023 da Bruno Santini
La principale critica mossa a Napoleon è quella di non raccontare la realtà, ma anzi di distorcerla. Nonostante Magritte con il suo “Il tradimento delle immagini” abbia già in parte confutato questo approccio, in questo approfondimento volevo scavare dalle origini dell’immagine riproducibile per spiegare come mai l’attinenza alla realtà non è un valore. Prendendo spunto da riflessioni di illustri esperti, spiegheremo come Napoleon in realtà sia un film che riflette sull’immagine storica e sull’idealizzazione proponendovi una personale ed intima visione. Cerchiamo quindi di capire perché la veridicità storica in Napoleon sia inutile, e perché in realtà questo film affronti il tema delle immagini e della storia.
Napoleon: perché l’accuratezza storica è inutile
Definito quindi il campo di speculazione occorre chiedersi in primo luogo: quali sono i confini del verosimile e del realistico nel cinema? Possiamo veramente definire la verosimiglianza come un valore indiscutibile? Per rispondere a questa domanda, forse, è necessario partire dall’origine dell’immagine riproducibile: quella di Hippolyte Bayard e di Baldus. Quando l’uomo inventa l’immagine riproducibile, inventa la finzione. Non dobbiamo arrivare al pittorialismo di Le Gray e di Cameron, basta il gesto innaturale del posare. Bayard si ritrae come un annegato, lascia col suo cappello una firma artistica. Baldus per riprodurre il Chiostro di San Trophime ad Arles, unisce più fotografie dello stesso luogo per restituire ciò che il suo occhio vede ma che la camera non riesce a catturare.
Questo perché la riproduzione del reale, è frutto di 2 occhi: quello dell’operatore e quello dell’apparecchio (l’obiettivo). Lo citava nelle sue riflessioni Walter Benjamin, nel constatare la crisi del “hic et nunc” nell’era della macchina da presa. La fotografia è esclusione, è inquadrare e montare secondo gusto ed esigenze il reale. Questi principi diventano i fondamenti anche con l’immagine cinematografica, dove la distanza col reale si riduce al minimo. Se il pittore riproduce la realtà e il fotografo la inquadra, l’operatore la riprende. L’immagine si protrae nel tempo, nei 50s delle vedute dei Lumiére. L’uomo si identifica nel mezzo cinematografico, seppur non assista al gesto artistico. Non esiste l’attore, esiste la sua immagine. Una sua perfetta riproduzione sottomessa allo sguardo della macchina da presa, che seppur riduca il muro presente alla base nella pittura crea un ulteriore ed incolmabile divario fra l’immagine e la realtà.

Mettere in scena vuol dire rifiutare la realtà
La nascita del cinema affianca la nascita della messa in scena. Ce lo dicono i fratelli Lumiere con le loro vedute, con la Sortie d’usine in 3 versioni dove è ben evidente il riproporsi delle situazioni e dei gesti che manifestano la finzione. Ogni volta un cane, un buffo signore, comparse che fuggono con lo sguardo dalla macchina da presa. Altre vedute come FORGERONS, Arrouser et Arrosé, ed Arrivée d’un train à la Ciotat sono l’esplicitazione concetti già noti. L’immagine è costruita, composta, finta. Méliès con il suo montaggio, cementa definitivamente questo concetto. La finzione non deve essere solo pianifica come in una Mise-en-scène teatrale, può essere anche costruita. All’inizio è “tutti ai vostri posti e seguite il copione“, poi diventa “lo facciamo in post produzione“.
Alcuni potrebbero dire che fra Lumiere e Melies esiste un divario incolmabile nell’attinenza alla realtà. Qui, tuttavia, si cela la contraddizione della verosimiglianza come valore che trova contrasto nell’arte stessa e nella sua natura. La creazione artistica, infatti, prevede un creatore. Citando il buon Umberto Eco: il messaggio è frutto di codici a noi sconosciuti, che noi decifriamo utilizzando i nostri. Sono proprio quei codici il valore dell’opera d’arte, quell’aura che Duchamp ha analizzato per una vita e che meriterebbe un approfondimento separato. Piegare la visione dell’autore e i suoi codici all’attinenza alla reale, vuol dire negare all’autore la sua centralità nell’opera d’arte. Esisterà sempre una distanza fra la realtà e le immagini, perché l’atto stesso del mettere in scena vuol dire rifiutarla completamente; d’altronde esiste il “cinema del reale” per raccontare la realtà.

Napoleon e l’immagine idealizzata della storia
Terminata questa infinita e noiosa premessa, parliamo di Napoleon e delle sue immagini. Riprendendo parzialmente una riflessione di P.M. Bocchi su “House of Gucci”e sulle immagini tarocche, vi propongo una visione di Napoleon come film che contrasta l’immagine storica. Perché le immagini storiche sono idealizzate, una realtà trasfigurata ed investita di ideali che la distorcono. Questo elemento risulta evidente nella pittura, in particolare in quella di Jacques-Louis David citata nella pellicola (se non è idealizzazione il neoclassicismo…), ma è evidente anche nel racconto scritto della storia stessa. Non esiste UNA storia, ma più storie; il come si racconta è la variabile fondamentale. Una battaglia può essere vinta dai vinto o può essere persa dagli sconfitti, sta a noi scegliere il punto di vista. In questo contrasto, Napoleon ne emerge vittorioso.
Scott affianca la versione idealizzata nella storia alla versione più carnale. Il Napoleone generale idealizzato dei grandi dipinti di Gérôme, Delaroche e David che contrasta il sè umano di Scott. Emblematica è la scena dell’incoronazione: la ripresa è priva della solennità attribuibile al momento e si carica di numerosi significati. Non a caso, successivamente, la pittura crea l’immagine ideale e perfetta. Napoleone come Vito Acconci riflette sull’immagine di sé, perché quell’immagine rappresenta la realtà. Non importa che sia una vignetta satirica o un dipinto celebrativo, Napoleone è quello che appare agli occhi degli altri e di queste immagini distorte lui può esserne vittima o artefice. La realtà è quella dell’uomo che si manifesta con Giuseppina, la quale non è succube dell’immagine di Bonaparte. Cosa non vera al contrario, perché per Napoleone la sua amata è idealizzata e cristallizzata nel ritratto che lui ha di lei.

Napoleon racconta la storia, ma non quella di Napoleone
Scott rende il film la perfetta immagine della nostra percezione della storia: una successione di avvenimenti sequenziali segnata da tappe fondamentali. Istanti o firme di documenti, che all’atto pratico sono solo la inutile e formale conferma di un processo di mutamenti in continuo divenire. Ci rende partecipi di come queste immagini siano veicolate: la vittoria di Austerlitz si scontra con il numero di morti francesi. Napoleone non agisce per la Francia, ma per la sua immagine. Scott rifiuta la celebrazione e sceglie la via del grottesco, così come faceva Goya nei suoi dipinti sulla Guerra d’indipendenza spagnola. Napoleone è un essere umano, che vittima delle sue pulsioni e della sua immagine diventa carnefice. Risulta impossibile pensare che un uomo del genere possa essere succube di Giuseppina e di ciò che lei gli offre, ma lui non può farne a meno e ne diventa succube, idealizzandola.
Per Napoleone l’immagine è controllo, lo stesso che vorrebbe esercitare nei confronti di Giuseppina senza riuscirci. Scott tradisce anche le immagini del colossal storico, finendo col creare un film che non esalta il generale ma l’uomo nella sua imperfezione. Nel tradire la realtà, il regista racconta perfettamente il senso della storia e delle sue immagini redendo esplicita l’idealizzazione ed infrangendo il velo di finto realismo. Mettere in scena vorrà sempre dire tradire la realtà, perché ad essere importanti sono le immagini ed i significati che noi attribuiamo loro. Napoleon di Scott, così come Napoleone nel film è vittima dell’immagine idealizzata del generale, risultando ai nostri occhi come tarocco (e ritorniamo all’origine) di fronte all’ipotetica immagine originale. Tanto falso quanto un dipinto di David, o forse siamo semplicemente vittime a nostra volta dell’immagine di Scott. Ma d’altronde i grandi artisti sono polarizzanti, non si nascondo nella mediocrità.