Articolo pubblicato il 3 Novembre 2023 da Bruno Santini
SCHEDA DEL FILM
Titolo del film: Le Vourdalak
Genere: Horror
Anno: 2023
Durata: 91 minuti
Regia: Adrien Beau
Sceneggiatura: Adrien Beau, Hadrien Bouvier
Cast: Kacey Mottet Klein, Ariane Labed , Grégoire Colin, Vassili Schneider, Claire Duburcq
Fotografia: David Chizallet
Montaggio: Alan Jobart
Colonna Sonora: Maïa Xifaras, Martin Le Nouvel
Paese di produzione: Francia
La prima giornata del FIPILI Horror Festival si è conclusa all’insegna del mostro più iconico del cinema. Ispirato alla novella di Aleksey Tolstoy, Le Vourdalak ha fatto discutere sin da Venezia. La pellicola di Adrien Beau decide di ergersi nell’horror contemporaneo della forma, con un tocco quasi artigianale. Grezzo, imperfetto forse, ma capace di regalare emozioni uniche con una visione in sala. Un tentativo di rilanciare il vampiro con una veste classica, ma che guarda al futuro. Creando nel tutto, un mix di mitologia ed arte cinematografica dal sapore decisamente inusuale. Ma sarà riuscita questa pellicola a convincerci? Per scoprirlo, di seguito recensione di Le Vourdalak di Adrien Beau.
La trama di Le Vourdalak, diretto da Adrien Beau
Prima di procedere con la recensione di Le Vourdalak di Adrien Beau, viene offerta la sua breve sinossi ufficiale: Il vecchio Gorcha implora la famiglia prima di partire, chiedendo loro di aspettarlo per almeno sei giorni. Se non dovesse tornare dopo la scadenza dei sei giorni, impone ai figli di rifiutarsi di farlo entrare, perché da sopravvissuto non sarà altro che un maledetto Vourdalak.

La recensione di Le Vourdalak, il trionfo del Fantoccio
Creature della notte, o quasi. Perché Le Vourdalak sin da subito rifiuta la via del climax legato al mostro. Ben visibile e in piena luce, come nei paesaggisti francesi. Un fantoccio empio ed inquietante sempre ben visibile allo spettatore. Una marionetta scheletrica, che ricerca le sue fattezze nelle origini del cinema stesso, un cinema di artigiani. Creatura empia tanto quanto i personaggi. Vuoti fantocci vittime del mondo circostante, scaraventati dagli eventi. Come Goya nel suo The Straw Manikin, l’apparente leggerezza di questi esseri diventa simulacro delle pulsioni del mondo. Inanimati, stimolano la pellicola con un’ottima performance attoriale. A volte citando Bava, a volte virando verso Dreyer ed il suo Vampyr. Citazionismo a volte fine a se stesso anche nella regia, ma che non minaccia minimamente la qualità della pellicola. In “stile Goya” nel film troviamo anche l’atmosfera. Come in un sabba si respira aria di morte nonotante l’apparente festosità.
Volti scavati e privi di vita, vagano nel tentativo di dare un senso alla loro esistenza. Logorati dalla guerra e dalla fame, dall’isolamento e da una famiglia disfunzionale. Manifesto della complessità della pellicola, perfetta in alcuni aspetti ma deficitaria in altri. Difettosa ad esempio la fotografia, decisamente troppo scura in notturna. Da rivedere anche il montaggio, con stacchi in dissolvenza spesso anticlimatici. Degna di nota la colonna sonora, mai invasiva. Accompagna la visione, come in una “mise en scene” teatrale. Spettacolo a tratti di marionette per il suo grottesco incantante. Atmosfera che poi degenera verso una letterale Danse macabre, dove il protagonista può solamente constatare l’inevitabilità della morte. Un elogio alla rassegnazione, ma in stile classico. In un cinema che non può innovare, forse la chiave sta proprio nella riscoperta del passato. Dei suoi stili, del suo linguaggio.