Articolo pubblicato il 27 Dicembre 2023 da Emanuela Di Pinto
«I fatti raccontati sono realmente accaduti». Ogni volta che una pellicola esordisce con una frase di questo tipo ci scontriamo sempre con la rottura totale della sospensione dell’incredulità. Abbiamo la coscienza che, tutto ciò che sta succedendo su schermo proviene dall’esperienza di vita di qualcuno, da uno spaccato di esistenza che difficilmente potrà essere replicato. Qualsiasi pellicola, nella sua interpretazione di “prodotto realizzato da qualcuno”, è vittima del punto di vista di colui che l’ha realizzata. Soprattutto quando si parla di film politicamente schiarati, diventa sempre più raro vedere un punto di vista diverso capace di andare oltre la semplice opinione collettiva da tutti seguita perché più semplice e meno pericolosa da spiegare. Ci sono, però, dei casi in cui qualche regista è riuscito nell’arduo compito di proporre una lettura diversa, controcorrente e capace di avviare una riflessione che vada oltre il semplice abbassare la testa e accettare tutto ciò che succede passivamente. Nel 2005 Steven Spielberg arrivava al cinema con Munich uno dei suoi film più politici e eticamente ambigui, in grado di mettere in discussione le motivazioni e gli obiettivi dello scontro tra Israele e Palestina, una guerra lunga quasi 80 anni.

Munich, l’importanza dell’eredità di Steven Spielberg
Come ebreo ad Hollywood, nonostante dalla sua carriera possa sembrare il contrario, Spielberg è sempre stato vittima di una sottile e malcelata ghettizzazione di chi lo aveva catalogato come il regista incapace di andare oltre i film di fantascienza. Già con Schindler’s List aveva chiaramente dimostrato quanto si sentisse vicino alla sua eredità ebraica e il modo in cui ha influenzato, inevitabilmente, la sua vita e la sua ideologia. L’approccio dei media che negli ultimi giorni hanno riacceso i riflettori sul conflitto israeliano palestinese a seguito dell’attacco di Hamas al cuore di Israele, è diventato sempre più approssimativo e incapace di comprendere le sfumature ei chiaroscuri di una guerra che ha le sue basi nella storia millenaria del popolo ebraico e di quello palestinese.
Mentre il resto del mondo inneggia alla vittoria di Israele, solo in pochi hanno avuto la lucidità e l’imparzialitá, negli ultimi 80 anni, di analizzare realmente le conseguenze che un conflitto del genere causa, creando un circolo vizioso fatto di vendetta fine a se stessa che vede vittime innocenti in civili non preparati ad affrontare i ‘capricci’ dei loro capi e dell’Occidente. Contro ogni tipo di previsione, il primo a capire la necessità di esplorare l’ambiguità di questa guerra è stato l’ultimo regista che molti si sarebbero aspettati realizzasse un film di questo tipo.
Munich, all’origine di una guerra senza fine: l’attentato di Monaco ’72
Era la notte tra il 5-6 settembre 1972 a Monaco di Baviera, sede delle Olimpiadi, quando un commando dell’organizzazione terroristica Settembre Nero occupò l’hotel nel quale alloggiava la delegazione israeliana. Nonostante le trattative portate avanti con le forze dell’ordine tedesche, l’assalto si concluse con la morte di 17 persone di cui 11 atleti, 5 terroristi e un poliziotto. Munich, fin dalle prime scene, segue l’agente Avner Kaufman, incaricato dal primo ministro israeliano in persona di “superare i limiti imposti dalla legge” assegnando l’eliminazione di tutti coloro che furono coinvolti, direttamente o indirettamente, nell’attentato di Monaco. La spedizione punitiva, mai riconosciuta dallo Stato d’Israele, veniva identificata con il nome “Operazione Ira di Dio”. Durata oltre 20 anni, la missione organizzata dal Mossad (servizi segreti israeliani) e autorizzata indirettamente da Israele, portò a tragiche conseguenze uccidendo palestinesi anche non direttamente coinvolti negli eventi di Monaco

La macabra sensazione di realtà che si prova guardando il film, è paragonabile al modo in cui, man mano che Munich porta avanti le sue trame, si assiste alla disumanizzazione del protagonista che, guidato da un istinto naturale di vendetta che gli viene inculcato dallo suo stesso Stato, non riesce più a distinguere le motivazioni della violenza di cui è diventato passivo esecutore. In una narrazione lineare che sembra semplicemente ripercorrere cronologicamente gli episodi chiave dell’operazione, Spielberg inserisce abilmente con piccoli sottotesti quello che è il vero nucleo tematico del film: mettere in crisi la convinzione, tutta occidentale, che vedrebbe Israele come povera vittima passiva delle violenze insensate dei palestinesi. La colpa è reciproca e Spielberg tenta di urlarlo a gran voce.
Un conflitto fatto di sfumature impercettibili
La realtà viene sbattuta in faccia al protagonista decine di volte nelle parole dei palestinesi con cui si confronta e nei loro racconti di una vita passata da sfollati, allontanati da quella che definivano la loro casa. Le domande che Avner si fa durante il film dovrebbero essere quelle che tutti, come occidentali e soprattutto, come abitanti di questo mondo dovremo farci: perché abbiamo cosí tanto bisogno di fare una
distinzione tra buoni e cattivi? Spielberg da voce ad uno degli interrogativi eticamente più complessi da sciogliere e che, tuttora, è sul tavolo di tantissimi storici.
Il regista si fa portatore di un’idea più profondamente politica e sociale che non si limita a trovare il bianco e il nero in un conflitto cosí lungo e storicamente ambiguo. Una analisi che in pochi si sarebbero aspettati da un regista apertamente ebreo ma che conferma quanto l’orientamento politico e religioso c’entrino ben poco in una guerra che dal 2008 al 2020 ha causato quasi ottomila morti tra palestinesi ed israeliani. In un mondo che pare abbia messo i paraocchi e che è influenzato costantemente da una visione filo-israeliana, si sente la necessità di qualcuno che riesca ad andare oltre il semplice schieramento politico e la propria influenza culturale per raccontare il lato “invisibile” del conflitto isrealiano palestinese, fatto di vittime innocenti che, dopo quasi 80 anni di guerra, non sanno ancora il motivo che ha portato la loro terra a diventare un cimitero a cielo aperto.