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Drive My Car: la recensione del film di Ryūsuke Hamaguchi

Ecco la recensione di Drive My Car, film di Ryusuke Hamaguchi, vincitore del premio Oscar

SCHEDA DEL FILM

Titolo del film: Drive My Car
Genere: Drammatico
Anno: 2021
Durata: 179 minuti
Regia: Ryūsuke Hamaguchi
Sceneggiatura: Ryūsuke Hamaguchi, Takamasa Oe
Cast: Hidetoshi Nishijima, Toko Miura, Reika Kirishima, Yoo-rim Park, Dae-Young Jin, Satoko Abe, Masaki Okada, Perry Dizon, Ann Fite
Fotografia: Hidetoshi Shinomiya
Montaggio: Azusa Yamazaki
Colonna Sonora: Eiko Ishibashi
Paese di produzione: Giappone

Drive My Car (titolo originale Doraibu mai kâ) è un film del 2021 diretto da Ryūsuke Hamaguchi, vincitore di un Bafta, un Golden Globe e un premio Oscar, tutti nella stessa categoria: Miglior Film Internazionale. Il film giapponese dell’ormai acclamato regista è stato presentato in anteprima al Festival di Cannes, dove si è aggiudicato il prestigioso riconoscimento denominato Prix du scénario. Va inoltre segnalato che agli Oscar del 2022, Drive My Car è stato candidato anche al Miglior Film, per il Miglior Regista e per la Migliore Sceneggiatura Non Originale. Di seguito la trama e la recensione di Drive My Car, film basato sull’omonimo romanzo del 2014 di Haruki Murakami.

La trama di Drive My Car, diretto da Ryūsuke Hamaguchi

Ecco la trama di Drive My Car, film diretto da Ryūsuke Hamaguchi e vincitore del premio Oscar:

 

“Il film racconta la storia di Yusuke Kafuku (Hidetoshi Nishijima), un attore e regista teatrale felicemente sposato, fino a quando sua moglie, una drammaturga, è venuta a mancare improvvisamente. Due anni dopo questo tragico evento, Yusuke viene ingaggiato per mettere in scena lo “Zio Vanja” di Checov in un festival teatrale che si tiene a Hiroshima. Durante le rappresentazioni conosce Misaki (Tōko Miura), una ragazza che è stata scelta per fagli da autista. Trascorrendo sempre più tempo insieme a bordo di una Saab 900 rossa tra un tragitto e l’altro, i due legano molto e anche la riservata Misaki riesce ad aprirsi e a parlare di sé. L’attore e la sua autista iniziano a raccontarsi sinceramente, fino ad affrontare il delicato tema del passato di entrambi.”

Ecco la recensione di Drive My Car, film di Ryusuke Hamaguchi, vincitore del premio Oscar

Drive My Car, la recensione: il dramma sull’incomunicabilità dipinto da Ryūsuke Hamaguchi

L’incipit di Drive My Car è fin da subito teorico e incisivo, nonché profetico per il concetto emanato dal film: la silhouette di Oto, moglie del protagonista, in contro luce. Le ombre assumono il ruolo di proiezioni, e il cinema in tal senso, fin dagli albori della sua breve Storia, ha riflettuto parecchio a riguardo. Ma proiezioni di cosa o di chi, esattamente? Nel caso specifico del capolavoro di Hamaguchi, si può trovare riscontro nel testo nell’associazione tra le ombre come illusioni di una vita mai realmente vissuta. A seguito di un folgorante inizio la cui sequenza dura circa 40 minuti, Yusuke si chiude in sé stesso perché non è capace di elaborare il lutto improvviso. La questione viene ancora più accentuata da una conversazione promessa e mai più ripresa, segnata da una tragedia senza pari e senza rimedio. Ciò che si può fare di fronte a un dolore così tremendo, riguarda soltanto l’accettazione per un proseguo importante tanto quanto lo era stato il presente fino a quel momento. La negazione della vita stessa è il fulcro attorno cui ruota l’esperienza drammatica del protagonista, e di conseguenza le sue relazioni con gli altri personaggi del film. Le macerie del passato pesano sulle spalle come un macigno, e ciò viene accentuato ancor di più dall’entrata in scena  di Misaki, la quale condivide parecchio del suo giovane bagaglio esperienziale con Yusuke. Entrambi si sentono in qualche modo appesantiti, e l’incomunicabilità di “antonioniana” memoria prende forma attraverso alcuni espedienti, come ad esempio il già citato dialogo mancato tra marito e moglie, probabilmente dovuto ai molteplici tradimenti di lei.

 

Ma soprattutto la scrittura (finzione) viene mescolata alla realtà, specie quando una Oto ancora in vita si sente ispirata nel formulare dei racconti da trasformare successivamente in sceneggiature. Persino la trasposizione teatrale dello Zio Vanja di Anton Čechov si congiunge con il piano della narrazione in un atto di trasmigrazione della parola dall’interiorità dei personaggi al loro esterno, proprio come una proiezione. La Saab 900 rossa diventa l’oggetto simbolo per Yusuke, in quanto vita passata nonché abitudine quotidiana. Partendo da quest’ultimo fattore, la vettura assume sin da subito una valenza chiara e semplificata, persino affettiva; è come se la macchina parlasse, perché la lettura del copione – registrazione analogica su cassetta – è senza forma, senza tono, robotica. Soltanto successivamente c’è uno sdoppiamento di significante: con il lutto, la Saab 900 è una simil personificazione della moglie, di cui la voce resta fluidamente interna a quell’ambiente privato e personale per Yusuke. Il nome di Oto d’altronde si può tradurre letteralmente come “rumore”, e di fatto questo rumore accompagnerà il protagonisti e gli spettatori fino alla fine del percorso catartico, fungendo da sottofondo echeggiante. Nell’incipit del film viene anche fornito un interessante spunto, ripreso poi dal regista più avanti nel lungometraggio, ovvero il momento estatico in cui la ragazza della storia di Oto ripensa alla sua vita passata come Lampreda attaccata alla roccia. In quell’istante, a detta della narratrice, passato e presente si fondono durante l’atto sessuale autoimposto (masturbazione) nel racconto, e reale nella vita, creando una linea fintamente parallela. 

 

Il passato può essere associato alla roccia, mentre Yusuke è la lampreda che non riesce a staccarsi dall’oggetto in questione, ancorandosi forzatamente e rischiando così di andare incontro alla morte/non vita. Il protagonista deve smorzare tale proiezione e ritrovarsi, dato che si è chiuso nel suo mondo composto da letteratura e teatro. Non casualmente Yusuke suggerisce ai suoi attori di perdersi nel testo teatrale, li induce prima di tutto a non comunicare tra loro poiché parlano lingue diverse, ma li stimola chiedendo loro di muoversi con il corpo, trovando quel punto di contatto che equivale al rapporto azione-reazione. Gli attori trasformano lo spazio scenico in una performance personale e intimamente umana, e lo fanno tramite le interazioni. L’opera Zio Vanja è il moto reazionario grazie a cui gli attori/personaggi comprendono gradualmente sé stessi e gli altri, saldando la potenza della comunicazione. Infatti, si dà un senso ai silenzi spogliando di significato la parola posta come fonetica acustica, ed è il movimento, il contatto e la pazienza del “sentire” realmente l’altro da sé, che diventa significazione unica.

 

L’ambiguità e il mistero delle parole riempiono il ricco linguaggio in Drive My Car, eterogeneo e impattante grazie alle performance le quali restituiscono quel “oltre” tanto ambito, ma che qui assume il sapore di catarsi per il protagonista e la sua giovane amica. I gesti e le parole creano intimità, risultano il fulcro della comunicazione e delle relazioni. Per tale ragione, nel finale di Drive My Car si avverte tutta la potenza dei segni (linguaggio dei segni) come coreografia, e Yusuke abbraccia una consapevolezza personale ed essenziale: può finalmente tornare a vivere, ritrovando sé stesso con l’accettazione del trauma passato. D’altronde, la scena del pianto a singhiozzi nello scenario innevato dell’Hokkaido esprime tutto il dolore trattenuto interiormente e nelle immagini del film, visivamente simmetrico ma dotato di una particolare intensità; l’apertura al dialogo, la consolazione e la comprensione insieme aiutano l’individuo a inserirsi nella società, ma soprattutto a conoscersi in quanto essere umano dotati di pregi e difetti.

Drive My Car: la semantica del film

In Drive My Car, Hamaguchi intende autenticare la realtà attraverso le immagini (le sensazioni dei personaggi con la pièce Zio Vanja), in una summa postmoderna finalizzata all’esteriorizzazione più intima delle emozioni generatesi nei personaggi e trasmesse poi al pubblico. Vi è un’alternanza continua di focali lunghe e medie per disporre dello spazio cinematografico adattandosi alla narrazione del film. Come di consueto, le mezze figure e i primi piani servono a mostrare chi parla e chi reagisce, ma spesso Hamaguchi gioca con le distanze per esplicare l’emotività in gioco, e quindi si concede delle inquadrature fisse piuttosto prolungate per “catturare” due personaggi a rapporto. I piani lunghi vengono adoperati per far sì che le immagini con più personaggi in scena risultino limpide. Recitazione, letteratura, rivelazioni e prese di coscienza si mescolano e tracciano un percorso intimo e meta-artistico. In tal senso basti pensare alle prove svolte all’aria aperta e al verde, dove due attrici, tramite una differente comunicazione, riescono comunque a creare un loro centro, un nucleo personalissimo quanto autentico, il quale va addomesticato e riproposto così com’è anche a teatro. Ma la semantica delle inquadrature in Drive My Car accompagnano persino l’avvicinamento graduale tra Misaki e Yûsuke, con campo-controcampo più volte prolungato come a dividere loro inizialmente, per poi unire entrambi nella stessa immagine quando le loro mani escono dal tettuccio della macchina per far uscire il fumo delle sigarette. Si tratta di un’intensità ben dispiegata durante l’arco del racconto, e il punto di arrivo è la stabilizzazione di una complicità.

 

Ma anche i silenzi hanno dei significati profondi e ambigui, mai realmente svelati, e perciò lo specchio assume in realtà un connotato profondamente e letteralmente riflessivo. Basti pensare alla reazione di Misaki quando riceve dei complimenti da Yusuke per come guida. La ragazza, fino a quel momento in silenzio, si alza e va ad accarezzare il cane sorridendo, come a voler esprimere a suo modo un senso gioioso. Takatsuki diventa, a proposito di proiezioni, una specie di alter ego di Yusuke, il quale vede nel giovane attore un’altra persona che ha preso in custodia la memoria di Oto. Durante le loro conversazioni, Takatsuki rivela il proseguo di un racconto di Oto, ed effettivamente si può intuire come la donna avesse la volontà di denunciare lo squarcio creatosi in lei per i continui tradimenti. Inoltre, non è chiara la scelta attoriale di Yusuke: perché assegna il ruoto di Vanja al ragazzo? Vede sé stesso in lui? Si tratta di un atto mosso dal fascino, dalla curiosità o dalla vendetta? Questo personaggio ha, tra l’altro, una bellissima chiusura: dopo aver sfoggiato la sua migliore interpretazione durante le prove, per cui addirittura il regista si complimenta (e non lo fa mai), combacia ambiguamente con la realtà della vita, la quale gli riserva un arresto per aver causato la morte di un uomo.

 

Drive My Car ha una struttura simmetrica, ma in realtà dispone di un movimento lacerante per quelli che sono i dolori trattenuti, i traumi vissuti e poi ammessi; il capolavoro di Hamaguchi finalizza gli intenti e comunica perfettamente con i suoi riti abituali, con dei gesti e dei dettagli essenziali. Il finale rimarca il senso stesso del film tramite i gesti coreografici dell’attrice muta, che abbraccia a sé il protagonista in un atto consolatorio, sottoscrivendo così l’invito che il regista manda al suo personaggio: torna a vivere!”. Lo stesso accade per Misaki, la quale adotta un cane e corre sull’asfalto verso la luce del sole (fenomeni metereologici esplicativi nel cinema del regista giapponese) nella Saab 900 rossa di Yusuke, suggerendo in tal modo un “andare avanti” speranzoso e caloroso

Voto:
5/5
Andrea Barone
4.5/5
Andrea Boggione
4.5/5
Gabriele Maccauro
3.5/5
Riccardo Marchese
4/5
Paola Perri
4.5/5
Vittorio Pigini
4/5
Giovanni Urgnani
4.5/5
0,0
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