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Recensione – Gli Ultimi Giorni dell’Umanità, il (non) film di enrico ghezzi ed Alessandro Gagliardo

La recensione del non-film di enrico ghezzi e Alessandro Gagliardo, presentato in anteprima fuori concorso a Venezia79.
Gli Ultimi Giorni dell'Umanità, un film di Enrico Ghezzi ed Alessandro Gagliardo

Presentato in anteprima alla 79esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Gli Ultimi Giorni dell’Umanità è il non film – così definito dagli stessi autori – di enrico ghezzi ed Alessandro Gagliardo. Distribuito dalla Cineteca di Bologna, l’opera è nelle sale italiane dall’8 maggio scorso, nonostante sia già quasi completamente scomparso dai cinema. Di seguito, ecco trama e recensione di Gli Ultimi Giorni dell’Umanità.

Trama, Genesi e Recensione di Gli Ultimi Giorni dell’Umanità, il (non) film di enrico ghezzi ed Alessandro Gagliardo

Spesso e volentieri, le recensioni iniziano con un veloce paragrafo sulla trama del film che si va a trattare. Trame semplici, trame complesse, ma l’approccio nell’analizzare questa specifica opera non può essere lo stesso, non può seguire gli stessi binari della critica cinematografica perché prende un’altra direzione, viaggia solo verso l’annientamento e la fine dell’umano. “35 anni di riprese condensate in 500 nastri per 700 ore di girato. Un’enormità di immagini, parole, situazioni, volti, luoghi. Si tratta dell’archivio privato di enrico ghezzi (che da sempre ha manifestato la volontà di firmarsi con le iniziali in minuscolo). Da qualche tempo un manipolo di donne e uomini ci sta affossando la testa per farne, insieme a lui, un film: Gli Ultimi Giorni dell’Umanità“. Questo è ciò che, nel dicembre del 2019, si leggeva sul sito di crowdfunding di Produzioni dal Basso. Un progetto che risale dunque a ben prima del 2019 e che prende in esame oltre 30 anni di materiale di enrico ghezzi e che prende il nome dalla drammaturgia di Karl Kraus, che scrisse Gli Ultimi Giorni dell’Umanità con la volontà di non realizzarla mai, ma che fu poi pubblicata nel 1922. 100 anni dopo vede la luce questo non film – definito così dai suoi stessi autori – la cui presentazione alla 79esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia sembra la perfetta chiusura di un cerchio. 

 

 

Il lavoro sull’archivio ghezziano nasce a partire da un progetto di Alessandro Gagliardo, La Macchina che Cattura l’Eccedenza, presentato come “un dispositivo video elettrico pensato sulla base del funzionamento di uno studio televisivo. La funzione di segnale sorgente delle telecamere di uno studio viene sostituita dalle postazioni di montaggio. Dunque, in regia non arriva un soggetto ripreso dagli operatori, ma l’output del lavoro di editing svolto dai montatori”. Per realizzare quest’opera infatti, sono state necessarie 8 postazioni di montaggio, 5 di editing, 2 di audio ed una di regia dove, viene sottolineato più volte, è fondamentale la presenza non solo di cinefili ma anche di chi lavora in altri campi, perché è necessario uno sguardo vergine e meno influenzato: come spiegato da Donatello Fumarola, ovvero uno dei membri di questa squadra, “un approccio che non sia solo cinematograficamente intenzionato e quindi strutturato in un determinato linguaggio è cruciale e fa sì che le immagini siano più libere di parlare per se stesse, producendo per l’appunto l’eccedenza di storie prodotte spontaneamente”.

 

 

Risulta dunque impossibile parlare di Gli Ultimi Giorni dell’Umanità per compartimenti stagni, dividendo in maniera netta trama e recensione, in quanto si tratta di una sorta di Stream of Consciousness delle immagini stesse, di un’opera che esonda, straborda, che ghezzi stesso non classifica come film e che forse è proprio inclassificabile e che gioca, ancor prima che con generi o narrazione, proprio con il medium, trovandosi a metà tra il documentario, l’installazione ed il classico lungometraggio per tutti i suoi tanti eppure mai abbastanza 196 minuti di durata.

Gli Ultimi Giorni dell'Umanità, un film di Enrico Ghezzi ed Alessandro Gagliardo

La (non) recensione di Gli Ultimi Giorni dell’Umanità ed enrico ghezzi tra voyeurismo ed il tempo come malattia

Perché poi i 196 minuti di durata di Gli Ultimi Giorni dell’Umanità si racchiudono nel modo in cui inizia e finisce, con enrico ghezzi ed il suo occhio che osserva una realtà filtrata attraverso la cinepresa, una realtà raccontata attraverso immagini, cinematografiche e non, con lui che osserva attraverso un buco della serratura. Perché alla fine enrico ghezzi è sempre stato questo: un voyeur. Un uomo che ha passato la vita a riflettere non sul cinema in quanto tale, ma sul cinema come espressione di immagini e su quello che una qualsiasi di essa possa rappresentare, sopratutto quando entra in contatto con le persone. ghezzi ci racconta il suo mondo attraverso un infinito ed inestimabile materiale d’archivio in un’opera fiume, un’opera di cui è protagonista fino a scomparire, passo dopo passo, immagine dopo immagine, trasformandosi in spettatore. Gli Ultimi Giorni dell’Umanità è un’opera pressoché impossibile da spiegare, un non film che si avvicina più all’installazione che al lungometraggio e che ha come obiettivo, come detto, quello di riflettere sulle immagini: dal G8 di Genova all’incendio del cinema Reposi, dalle immagini delle opere di Shin’ya Tsukamoto, Abel Ferrara, Roger Corman e Sam Peckinpah, passando attraverso lo spettacolo che Luca Ronconi trasse dall’opera di Karl Kraus citata in precedenza e da cui questo non film prende il nome.

 

Tutte queste immagini che portano lo spettatore a sentirsi spaesato, affaticato e che vengono, tra l’altro, accompagnate da una colonna sonora eccezionale e per niente casuale: da iosonouncane a Franco Battiato, dalla musica classica, dalla sperimentazione e dall’improvvisazione, fino ai Genesis, muovendosi dunque tra cantautorato e prog, con una musica e delle immagini che passano dalla nascita alla morte, dalla contemplazione fino all’inevitabile oblio. Fa specie pensare che questo film arrivi nelle sale nello stesso periodo in cui Martin Scorsese presenta al Festival di Cannes il suo Killers of the Flower Moon: per l’occasione, intervistato da Deadline, il regista di New York sottolinea come, nonostante il mondo si sia ormai a lui aperto, è ormai troppo tardi; come solo ora comprende le parole che Akira Kurosawa pronunciò quando ricevette il premio Oscar alla carriera – quando, all’età di 83 anni, disse che solo ora iniziava a vedere la possibilità di ciò che il cinema poteva essere, ma era troppo tardi – e di come, ai tempi non ne capisse il senso; senso che, però, oggi riesce a comprendere. Citando Il Cielo Sopra Berlino di Wim Wenders, si dice sempre che il tempo curi ogni cosa, ma cosa succede quando è il tempo stesso la malattia? enrico ghezzi realizza con Gli Ultimi Giorni dell’Umanità un’opera che forse pochi riusciranno davvero ad apprezzare, ma che è destinata a rimanere. ghezzi non ci sarà più, nessuno ci sarà più, questa (non) recensione non ci sarà più, ma quest’opera continuerà a vivere, e va bene così.

Voto:
5/5
Data di rilascio:
Regia:
Cast:
Genere:

PRO