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Recensione- Il terzo uomo, la morale sotto le macerie

La recensione de Il terzo uomo

Vincitore della Palma d’oro (allora si chiamava ancora Gran Prix) durante la terza edizione del Festival di Cannes, distribuito nelle sale cinematografiche britanniche il 2 settembre 1949 mentre in quelle italiane il 30 novembre dello stesso anno. Diretto da Carol Reed, scritto da Graham Greene con colonna sonora composta da Anton Karas. Il cast è composto da: Joseph Cotten, Alida Valli, Trevor Howard, Bernard Lee, Wilfrid Hyde-White e Orson Welles. Candidato a tre premi Oscar, vincitore nella categoria Miglior fotografia a Robert Krasker.

La trama de Il terzo uomo, diretto da Carol Reed

Di seguito la trama ufficiale de Il terzo uomo, diretto da Carol Reed:

 

La Seconda Guerra Mondiale è da poco finita e lo scrittore canadese Holly Martins si reca in una Vienna ancora segnata dal conflitto, sotto il controllo delle potenze vincitrici, per incontrare il vecchio amico Harry Lime. Qui viene a sapere che l’uomo è morto. Non fidandosi delle indagini ufficiali, l’uomo inizia le proprie ricerche accompagnato dall’amante di lui, Anna Schmidt. Ma più scava nel profondo più si rende conto che la realtà è tutt’altro rispetto a come sembra, mettendo la sua vita in estremo pericolo.

 

 

 

 

La recensione de Il terzo uomo, con Joseph Cotten e Alida Valli

La violenza degli scontri bellici non lascia solamente distruzione tra gli edifici e le architetture ma crea uno squarcio esteso dentro l’animo umano. In situazioni come queste l’essere umano può emergere in due modi: mostrando il meglio di sé o purtroppo il peggio; ha la possibilità di rimboccarsi le maniche ricostruendo la propria società imparando dagli errori oppure trarre vantaggio dalla disperazione altrui, approfittandone per soddisfare la propria sete di guadagno o qualsiasi altro egoismo. Quest’ultima è la strada intrapresa da Harry Lime (Welles), un completo disinteresse verso la collettività che causa ulteriore sofferenza, una visione del mondo cinica e senza scrupoli a cui si fa leva per arricchirsi, sintetizzata al meglio nella celeberrima battuta dell’Italia e della Svizzera. Solo gli eventi negativi paiono in grado di esaltare l’ingegno umano, come se l’oscurità fosse l’unica condizione propizia perché uomini importanti vengano alla luce.

 

 

L’entrata in scena del personaggio rimane impressa nella memoria per come è costruita e realizzata, sfruttando appieno il divismo e il carisma del suo attore protagonista, un gioco di luci e ombre non solamente finalizzato al colpo di scena, ma carico di simbologia su di un personaggio che agisce nel buio per poi rivelarsi per quello che è veramente, la vera parte di sé non può più nascondersi ma deve necessariamente mostrare le vere intenzioni e la vera personalità. Ricca di significato è anche la sequenza finale d’inseguimento: il condotto fognario in cui Harry cerca di scappare prende la forma di un labirinto dove i sentieri sono tutti uguali e non portano da nessuna parte, la perseverazione nell’agire seguendo il male porta irrimediabilmente a perdersi senza più trovare via d’uscita, ottenendo solamente un risultato: la morte; regia e montaggio dialogano armoniosamente allo scopo di far provare allo spettatore la stessa sensazione claustrofobica dell’antagonista portando ad una resa dei conti tanto ineluttabile quanto dolorosa.

 

 

 

I pregi e difetti de Il terzo uomo, con Orson Welles

I due protagonisti di questa indagine rappresentano due modi differenti di intendere l’amore: Holly, nonostante il la profonda amicizia che proverà fino alla fine, affronta con decisione le pieghe degli eventi, convinto che tutto questo debba essere fermato poiché il bene collettivo è messo al primo posto rispetto ai sentimenti personali; al contrario, Anna cerca in tutti i modi di sostenere la fuga e l’incolumità di Harry forte di un amore sincero e passionale ma allo stesso tempo cieco o peggio, che non vuole vedere la realtà. Cosicché ogni aiuto dato alle indagini (dopo la grande scoperta) è vissuto come un tradimento in piena regola, tanto da risultare imperdonabile.

 

 

Quasi imperdonabile è la scelta compositiva della colonna sonora, decisione alquanto discutibile utilizzare sonorità jazz che poco si sposano con l’atmosfera noir o spionistica. Tale discrepanza diventa ancora più evidente nei momenti più salienti o in cui la suspence aumenta con l’infittirsi del mistero, uno scollamento sgradevole quasi da sforare il confine del fastidio. Chiaramente non è in dubbio la volontà di cercare appositamente la discrepanza ma il risultato effettivo non è comunque più convincente di quello che vorrebbe essere.