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I migliori film ambientati a Roma

Quando si parla di città dello spessore culturale, iconico e cinematografico di Roma appare difficile se non impossibile di primo acchito estrapolare una lista contenuta di titoli che possano rappresentarne a pieno, se non tutta, almeno parte della grandezza. Tra gli innumerevoli capolavori girati nella città eterna si cercherà di fare una cernita, selezionando quelli che tra le loro priorità hanno inserito chiaramente quella di narrare gli spazi e le persone di questa metropoli come mezzi per svelarne l’anima.

 

I migliori film ambientati a Roma

Ecco una selezione di 10 titoli, tra i tanti che si potrebbero scegliere, che sono riusciti a cogliere l’eterna ed elegante bellezza di Roma.

La dolce vita (1960)

In una selezione sui migliori film mai ambientati a Roma non si può non partire dal più imponente e sublime ritratto di questa città. “La dolce vita” non è soltanto il miglior affresco possibile della capitale nel pieno del boom economico e in quello che è stato nel secolo scorso presumibilmente l’apice del suo splendore, ma è anche la rappresentazione lucida e puntuale della sua natura quasi paludare, come afferma infatti il protagonista del film (omonimo del suo interprete Marcello Mastroianni) Roma ti avvolge in languido torpore dal quale è difficile districarsi, la capitale è il luogo perfetto in cui nascondersi. Da questo spunto prende vita anche la (non)trama della pellicola, episodicamente divisa eppure profondamente coesa in quanto attraversata da un rivolo di disperazione che ben presto si ingigantisce fino a raggiungere le proporzioni di un torrente.

 

Fellini, come troppo poco spesso sottolineato, comincia fin da qui a ragionare riguardo la perdita di creatività artistica che attanaglierà il suo protagonista in “8 ½” infatti qui Marcello è dilaniato dall’insoddisfazione per il suo lavoro di paparazzo e anela a diventare uno scrittore; tuttavia, la sua vita freneticamente vacua non gli concede requie e senza pace non vi può essere creazione. I luoghi più iconici di Roma sono rappresentati e abilmente studiati e non solo banalmente inquadrati, diventando fondamentali comprimari della pellicola, che rifugge perfettamente l’effetto cartolina.

Accattone (1962)

Pellicola d’esordio di Pier Paolo Pasolini e straziante controcampo della Via Veneto rappresentata da “La dolce vita”, “Accattone” è un meraviglioso esempio di dialogo con la periferia urbana, coraggiosamente affrontata, senza paura di essere mal interpretati, fin nel cuore della sua efferata miseria. L’opera mette fin da subito in chiaro il carattere scostante e spesso respingente del suo protagonista, le cui vicende tuttavia vengono narrate da “La passione di Matteo” di Bach.

 

Per Pasolini, infatti, distinzioni quali alto e basso, superiore o inferiori se applicate all’arte perdono qualsivoglia parvenza di significato e dunque l’arrancante e a tratti patetica vita di Accattone conserva nonostante tutto la sua dignità esistenziale, così come le sue pulsioni vitali e le sue azioni più grette. Molto del cinema italiano contemporaneo intento nella rappresentazione della periferia prende le mosse da pellicole come questa, che seppero prima di tutte fondere il sacro e il profano.

Il sorpasso (1962)

Molte pellicole si sono prefisse lo scopo di narrare Roma e il suo litorale nel periodo estivo, quando tutti gli abitanti del centro urbano si riversano sulle spiagge in cerca di un po’ di refrigerio. Se molte di queste opere però si soffermano nel narrare solamente l’ebbrezza delle serate estive riscaldate dai falò in spiaggia o all’ombra dei pini, ve ne sono delle altre che prediligono puntare il loro sguardo verso ciò che si svuota, che cambia i propri connotati in virtù di un’assenza. Roma nel bel mezzo d’agosto diventa infatti tutto d’un tratto una città dai connotati mistici, privata del caos che la contraddistingue per il resto dell’anno, sembra quasi riprendere fiato e sonnecchiare in un cantuccio cullata dalla calura estiva.

 

Ebbene parte dell’immaginario cinematografico legato a questo frangente temporale è stato profondamente modellato da pellicole come “Il sorpasso”.

Il film di Dino Risi prima di essere una spietata e tragica satira del furore consumistico e dello spregiudicato ottimismo verso il futuro dell’Italia del dopo-guerra, è il racconto della capitale e del suo enigmatico rapporto col periodo estivo, fatto di incontri fugaci, amicizie dalla durata di una notte e di danzante solitudine. Gassman eterno in una performance che cela tra il clamore delle sue risa gridi d’aiuti che rimangono inascoltati.

Caro Diario (1994)

Premiato con il premio per la miglior regia all’edizione del 1994 del Festival di Cannes che vide trionfare Pulp Fiction per decisione presa da una giuria presieduta da Clint Eastwood, “Caro diario” segna il primo e fondamentale spartiacque nella decennale carriera di Nanni Moretti, ponendo fine alla schiera di pellicole con protagonista il suo alter-ego Michele Apicella. Si potrebbe forse obiettare che soltanto due dei tre episodi siano effettivamente ambientati a Roma, eppure forse mai come in “La vespa” i connotati della capitale vengono delineati con così amorevole precisione. Come il sognatore de “Le notti bianche” Nanni Moretti si aggira per i quartieri di Roma, immergendosi tra le dolci linee dei suoi maestosi palazzi e sperimentando brevi ma intense infatuazioni per alcuni dei suoi appartamenti, che non può far a meno di visitare quasi mettendo in atto un velato corteggiamento per quei luoghi.

 

L’opera è permeata del soffice esistenzialismo morettiano e presenta almeno tre o quattro momenti celebri anche presso chi non ha mai visionato la pellicola. Il finale del primo capitolo con il pellegrinaggio alla tomba di Pasolini è la perfetta e amara chiusa di questo splendido racconto.

I soliti ignoti (1959)

Si apre con dei folgoranti tagli di luce dai chiari rimandi espressionisti uno dei capolavori assoluti di Mario Monicelli, “I soliti ignoti”. La pellicola narra le peripezie di uno scalcagnato gruppo di ladri improvvisati che tentano di mettere in atto un colpo che potrebbe cambiare le loro vite. Sempre nel periodo della dolce vita romana, Monicelli declina in chiave di commedia il disperato tentativo dei ceti più bassi della popolazione di trovare una strada per le proprie vite in un’Italia ormai lontana dagli stenti del dopoguerra e pronta a entrare nei ruggenti anni 60.

 

Il cast composto da Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Totò e Renato Salvatori è sensazionale e l’opera rappresenta forse il culmine formale della commedia all’italiana. Suggestiva è la rappresentazione di Roma, urbanisticamente ormai irriconoscibile rispetto a questa pellicola, sull’orlo della trasformazione che la porterà a passare da grande paese rionale a metropoli ipertrofica. In questi spazi i protagonisti si cacciano nelle situazioni più disparate, in grado di creare vividi e coinvolgenti effetti comici a ogni piè sospinto.

Ladri di biciclette (1948)

Opera fondativa del neorealismo italiano e visione cruciale per ogni appassionato di cinema, “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica rientra a pieno titolo tra le opere più significative della storia della settima arte. Tragica storia di miseria ambientata nella Roma del dopoguerra in cui a risultare straziante è l’impossibilità di conciliare onestà e povertà. Nell’opera di De Sica infatti gli ultimi sono privati di tutti gli strumenti culturali, economici e sociali per cambiare la propria situazione e non possono far altro che arrangiarsi e precipitare lentamente ma inesorabilmente nella criminalità. Un film poco apprezzato all’epoca in quanto in controtendenza con la narrazione comune che vedeva l’Italia riprendersi eroicamente e provvidenzialmente dalle atrocità della Seconda Guerra Mondiale.


L’autore romano invece punta la sua lente sugli ultimi, coloro che continuano ad arrancare e non sperimentano affatto questo cambiamento, delineando una Roma bellissima eppure povera, soffocante nei suoi scarsi orizzonti.

Brutti sporchi e cattivi (1976)

Era impossibile non inserire almeno un’opera di Ettore Scola tra i migliori film ambientati a Roma. La cifra di questo immenso autore e il modo in cui si sublima con il carattere della città lascia sempre estasiati, che siano pellicole sulla periferia, sul centro o persino in un singolo appartamento, l’impressione è che siano sempre in grado di convogliare una precisa idea riguardo la capitale e i suoi cittadini. In questo caso “Brutti sporchi e cattivi” risulta essere una delle opere più pessimistiche, desolanti e ciniche sulla città eterna.

Il film vede un mostruoso Nino Manfredi (che sembra uscito direttamente da “Non aprite quella porta”) essere il capo e padrone di una famiglia stipata in una baraccopoli nei sobborghi romani. I rinvii all’attualità sono innumerevoli: lo sfaldamento sociale, la creazione di enclave malsane e isolate che vivono cibandosi degli avanzi del resto della città, sono tutte tematiche vive nel dibattito contemporaneo e la regia di Scola ricca di movimenti ellittici e priva di punti di fuga prospettici non fa altro che sottolineare tragicamente il tutto.

 

Forse però la trovata visivamente più geniale e centrata e quella di porre, sullo sfondo del tugurio in cui la famiglia vive, in bella mostra la cupola di San Pietro, quasi a indicare come la marginalizzazione di questi individui da parte del resto della società non potrà essere eterna ma che anzi arriverà il momento in cui queste due realtà andranno a collidere.

Una giornata particolare (1977)

L’oppressione fascista ha visto la discriminazione feroce di qualunque individuo non rispettasse a pieno i paradigmi del regime e ha innestato nella società italiana dei caratteri di razzismo, misoginia e omofobia ancora duri a morire. “Una giornata particolare” è lo straziante e fortuito incontro tra Gabriele (Mastroianni) e Antonietta (Sophia Loren) nell’appartamento di lei a Palazzo Federici (emblema del razionalismo architettonico fascista) il giorno in cui tutta la città di riversa nelle strade del centro per rendere omaggio alla visita di Adolph Hitler a Benito Mussolini. Scola decide di ambientare questa pellicola esattamente sull’orlo del precipizio, poco prima cioè che il fascismo sveli il suo lato più mostruoso, fatto di persecuzioni e bagni di sangue.

 

I germogli di una resistenza culturale si intravedono infatti nel confronto tra i due protagonisti, simboli della violenta emarginazione cui il regime sottoponeva larghi strati della popolazione. La scelta di mettere in scena un rapporto sessuale tra i due è la perfetta esemplificazione di come questo regista fosse in grado di trovare la sua poetica in gesti inattesi, eppure permeati da una raggiante umanità, mai volti a scioccare lo spettatore quanto più a metterne sapientemente in crisi lo sguardo e spingerlo a interrogarsi riguardo il proprio statuto di verità.

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970)

Roma è tra le tante cose anche il centro del potere e della giustizia italiana. Simbolicamente non si può prescindere da essa se si vuole analizzare a fondo il rapporto spesso marcio tra politica, forze dell’ordine e criminalità. “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” è uno di più spietati atti d’accusa mai portati sul grande schermo da parte di un regista italiano. Elio Petri affida il ruolo del protagonista al solito immenso Gian Maria Volontè che, rinvigorito dal meraviglioso accompagnamento musicale di Ennio Morricone, sfida le leggi e lo status quo del potere per scoprire che l’autoconservazione è il principio che sta alla base di esso, ancor più della pena per il trasgressore. Ciò cui viene tragicamente a conoscenza il protagonista è che l’eventuale punizione inflitta è infatti guidata non da un senso di giustizia quanto più da una volontà di mantenimento dell’ordine precostituito, una certosina opera di continuo aggiustamento alla ricerca di un immobilismo perpetuo.

Le notti di Cabiria (1957)

Non si pensi che Federico Fellini abbia con “La dolce vita” esaurito tutto ciò che concerne il suo punto di vista riguardo Roma, infatti con “Le notti di Cabiria” la sua cinepresa si allontana dal centro per indagare la vita di chi vede nelle zone più glamour della capitale soltanto un luogo di lavoro notturno. Cabiria (Giulietta Masina) è una prostituta più volte sedotta e abbandonata, vittima del modo utilitaristico in cui gli uomini si approfittano di lei, spremendola finché fa comodo. Il suo animo, seppur temprato dalle continue delusioni, è tuttavia sempre ricettivo nei confronti di un possibile nuovo amore (come dimostrato dal meraviglioso finale) ed è in grado di proseguire sorridendo lungo la propria strada. Fellini qui più che in altre opere esprime sublimemente la poetica contraddizione tra felicità e sofferenza, vita come gioco e trappola mortale allo stesso tempo, inquadrata come sempre con lucidità e empatia.