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Recensione – Joint Security Area: film del 2000 diretto da Park Chan-wook

Ecco la recensione di Joint Security Area

Joint Security Area è un film sudcoreano del 2000, diretto da Park Chan-wook, regista di Old Boy e Mademoiselle. Si tratta di un’opera appartenente al genere drammatico e thriller, dalla durata di 108 minuti. Il film è basato sul romanzo intitolato DMZ, scritto da Park Sang-yeon e pubblicato nel 1997. Il cast è composto da Yeong-Ae Lee, Ha-Kyun Shin, Kim Tae-woo, Kim Myoeng-su, Herbert Ulrich, Christoph Hofrichter, Lee Byung-hun, Kang-ho Song. Ecco la trama e la recensione di Joint Security Area, film disponibile in streaming su MUBI.

La trama di Joint Security Area, film del 2000

Il Nord e il Sud della Corea si incontrano lungo una striscia di terra che è denominata Joint Security Area. Un confine che, a dispetto del nome beffardo, non è affatto un simbolo di unione, ma un baratro a due sponde, su ognuna delle quali una Corea contempla e aspetta di veder sprofondare l’altra. C’è una riga di cemento a dividere gli avamposti dei due schieramenti dove le guardie trascorrono anni a fissarsi, senza mai interagire in alcun modo se non premendo il grilletto quando cede la tensione.

 

È proprio uno di questi episodi che deve indagare il maggiore donna Sophie E. Jean: un soldato del Sud si è introdotto in una baracca della zona Nord e ha ucciso un ufficiale e un soldato nemici. Un folle commando “a solo”, sembrerebbe, ma la realtà nasconde un segreto insospettabile. Il sergente Lee Soo-hyeok appartiene alla fazione della Corea del Sud e varca il “Ponte di non ritorno” per giungere nella parte burocraticamente del Nord, dove incontra il sergente Oh Kyeong-pil e il suo sottoposto

Ecco la recensione di Joint Security Area

La recensione di Joint Security Area, film di Park Chan-wook

Joint Security Area, siglato JSA, è il terzo film in ordine cronologico del noto regista sudcoreano Park Chan-wook. Il tocco del regista personalmente coinvolto è sensibile, in grado di trasmettere il pathos allo spettatore utilizzando uno stile amplificatore della percezione. Il montaggio nasconde i dettagli per poi farli riapparire successivamente allo scopo di integrare le componenti tra loro, elevando la magia del cinema con il suo elemento maggiormente essenziale e appartenente al proprio linguaggio: il montaggio, per l’appunto. I movimenti di macchina sono imprescindibili poiché dotati di valore narrativo, e allora ecco che viene rimarcato visivamente il concetto principe del film: la Corea è una nazione divisa all’interno, e coloro che sembrano neutri sono in realtà interessati a conservare il conflitto. 

 

Park Chan-wook predilige i sensazionalismi con le sue inquadrature, ed è lo stile che maturerà in futuro dirigendo altri film. Soprattutto, in Joint Security Area sono numerosi i movimenti rotatori della macchina da presa, per offrire una panoramica senza “confini”, presenti invece sul territorio coreano. Il regista gioca con i riflessi dei suoi personaggi, come a voler cercare di evidenziare uno sdoppiamento in quanto uguaglianza tra connazionali qui divisi, e storicamente è lui a voler fare un passo avanti: essendo un regista sudcoreano, fa sì che due soldati della frontiera sudcoreana vadano incontro a quelli del Nord. Tuttavia, ideologicamente nessuno finirà per rinnegare i pensieri della propria fazione, ma la lettera d’amore è insita nella gestualità quotidiana che rimbomba dando vita a degli echi dai buoni sentimenti. Quattro soldati, due per fazione, coltivano una grande amicizia, e ciò va oltre la mera differenza di pensiero. 

 

Le inquadratura dall’alto nella zona demilitarizzata dell’Area di sicurezza congiunta, mostrano le strisce di cemento e le strutture che simmetricamente dividono in un due una nazione spaccata nello spirito. Gli occidentali intervengono, ma il colpo di scena riguardante il padre coreano del maggiore svizzero Sophie E. Jean restituisce una certa circolarità alla narrazione scandita in tre capitoli teorici. Non è un caso che la rivelazione avvenga in campo neutro, in un edificio che architettonicamente è rotondo e dal tetto esagonale, e l’ennesima ripresa dall’alto mostra una omogeneità di fondo tra le due nazioni divise e rappresentate architettonicamente da tetti rettangolari e simmetrici, con nel mezzo un edificio che presenta forma e colorazione differente. Si staglia il grigio tra le due strutture bianche, così come “grigia” in quanto appartenente a due etnie diverse è Sophie. 

 

Il racconto è concentrato nel raffigurare l’umanità dei soldati divenuti amici, intenti a fumare, mangiare dolci, giocare, bere e parlare di sé. La misericordia è presente sin dal momento in cui i personaggi protagonisti si incontrano, dove l’uno salva l’altro in lacrime per la paura di morire. Dopo una tale costruzione, il finale del film è puro e angosciante thriller, e le riprese di Park Chan-wook immobilizzano i dettagli per rappresentare al meglio lo stallo alla messicana generatosi in scena. Premere il grilletto significa morte senza distinzioni territoriali, ma a quanto pare la verità su quanto accaduto non interessa a nessuno, perché i neutrali non sono poi così neutrali, e la guerra fa comodo a tutti. L’umanità è presente sì nel film, ma è imprigionata in una simmetria inquietante per l’accezione politica e sociale di cui è intrinseca. Gli esseri umani sembrano miseramente destinati al perenne stato di “tutti contro tutti”, delineato dalla filosofia di Thomas Hobbes.

Voto:
4.5/5
Gabriele Maccauro
4.5/5
Vittorio Pigini
4/5