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Recensione − Il Mucchio Selvaggio: il western postmoderno di Sam Peckinpah

La recensione de Il Mucchio Selvaggio, western di Sam Peckinpah

Il cinema è sempre stato una possibile lente di ingrandimento con cui osservare la realtà. La realtà a sua volta influenza il linguaggio cinematografico, generando veri e propri ritratti della società di un tempo o contemporanea se parliamo di film attuali. Per la rubrica dei classici, è la volta de Il Mucchio Selvaggio, western postmoderno diretto dal maestro Sam Peckinpah. Ritratto dell’America a cavallo degli anni ’60 e ’70, Il Mucchio Selvaggio ha di per sé influenzato lo stile dei registi venuti dopo, tra cui proprio Walter Hill con il suo I cavalieri dalle lunghe ombre, di cui si è scritto già in questi lidi. Ecco la trama e la recensione de Il Mucchio Selvaggio, western postmoderno diretto da Sam Peckinpah, con William Holden, Ernest Borgnine, Robert Ryan, Edmond O’Brien, Warren Oates, Jaime Sánchez.

La trama de Il Mucchio Selvaggio, western di Sam Peckinpah

Nel 1914, durante la rivoluzione messicana guidata da Pancho Villa, un gruppo di fuorilegge in uniforme da Cavalleria Americana, guidati da Pike Bishop (William Holden), subisce un’imboscata durante una rapina in banca tesa loro da alcuni cacciatori di taglie, capeggiati da Deke Thornton (Robert Ryan), nel tentativo di restituire i finti Cavalieri  alla vera giustizia. Qualcuno resterà ucciso, mentre gli altri saranno costretti a scappare. Tutto questo nel mezzo di una tranquilla cittadina, mentre i bambini giocano tra di loro e con gli insetti, e con la banda musicale che supporta la Lega anti-alcol.

 

I leader dei rispettivi gruppi sono ex amici, complici di scorribande tra rapine di giorno e prostitute di notte, nel periodo successivo alla Guerra di Secessione. Varcato il confine con il Messico in cerca di maggiore serenità avendo i cacciatori di taglie alle calcagna, il gruppo di banditi si ripromette, a seguito del breve ma intenso conflitto, di organizzare un ultimo colpo prima di abbandonare questa vita, accettando l’incarico di rubare armi alle reclute dell’Unione per rivenderle poi alle armate regolari messicane che le useranno contro i ribelli. Un po’ alla volta gli uomini iniziano però ad affezionarsi alla causa messicana e l’uccisione di Angel (Jaime Sánchez) ad opera dei regolari messicani farà scattare in loro la voglia di vendicarsi.

La recensione de Il Mucchio Selvaggio, western di Sam Peckinpah

La recensione de Il Mucchio Selvaggio, manifesto programmatico del postmoderno

Si è già citata la possibilità del cinema di essere influenzato dalla realtà, e a sua volta di influenzarla. Un dialogo reciproco che trova riscontro nella storia del cinema, con i vari classici trattati nell’apposita rubrica. In questo caso, Sam Peckinpah con Il Mucchio Selvaggio costruisce il suo western postmoderno nel contesto in cui l’America viene colpita da diversi eventi: gli omicidi di Martin Luther King e del presidente Robert Kennedy; il 68′ è un anno di disordini, di cambiamenti e di tensioni. Inevitabilmente anche la Guerra Fredda tra Stati Uniti e Russia si riflette sul modus operandi dei registi, soprattutto a seguito del fenomeno del Maccartismo (vedasi il caso Elia Kazan). Altrettanto inevitabile è allora il cambio di rotta del cinema postmoderno nel rappresentare tematiche differenti da quelle del cinema classico, ma maggiormente rilevante è il come vengono messe in scena. 

 

L’incipit del film è già esplicativo, un manifesto programmatico del postmoderno. L’insubordinazione, la tensione e l’impossibilità di redenzione sono esattamente il contrario di ciò che si vedeva nei western classici, diretti ad esempio da John Ford. Nel prologo, la scelta registica adoperata, in combutta con il montaggio, consiste nel contrapporre e nell’accostare immagini: due gruppi di malviventi, i banditi di Pike Bishop e i cacciatori di taglie di Deke Thornton; un’agguato; una rapina in banca; la banda musicale che marcia in città supportando la Lega anti-alcol; i bambini per divertirsi gettano due scorpioni tra le formiche. Una situazione sopra le righe che dimostra la sovversione degli stilemi classici sin da principio, mettendo in contrasto le inquadrature e mostrando allegorie su ciò che è e ciò che sarà. La situazione iniziale schiera sul campo i conflitti tra i due ex-amici protagonisti del film, alternando con il montaggio i due punti di vista. Così facendo, bene e male si mescolano, e lo spettatore resterà scioccato di fronte un conflitto come non lo si era mai visto nei western: abbondante numero di inquadrature (più di 3600 nel director’s cut in 2 ore e 25 circa), soggettive − come la caduta dei personaggi dal cavallo − alternate velocemente ad oggettive che mostrano azioni e conseguenze, in scene che durano 1/10 di secondo; pulp e ralenti significano sangue e morte, originariamente rilegati fuori campo nel cinema classico hollywoodiano con un solito stacco di montaggio a lasciar intendere ma non a mostrare, qui prendono vita nel modo più cruento e frenetico possibile. 

La recensione de Il Mucchio Selvaggio, western di Sam Peckinpah

Il Mucchio Selvaggio, un’epopea elegiaca che saluta il Vecchio West

Di fatto nel 1969, la colpa insita negli americani ricade sull’arte: Il Mucchio Selvaggio ha la grandezza di macchiare la purezza della Cavalleria e della frontiera, inasprendo tutto e mescolando elementi iperrealistici. Non c’è più il nemico comune da sconfiggere con tanto di happy end finalizzato a compiacere i sentimenti degli spettatori dopo la Grande Depressione del 1929. Omicidi nazionali e tensioni internazionali combaciano e vengono rappresentati violentemente in un genere che storicamente ha contrapposto bene (chiaro) e male (scuro), ma che con Peckinpah viene rielaborato con genialità. Il politicamente scorretto è una costante della pellicola, non ci sono eroi e la morale rende impossibile, a chi guarda, l’identificazione in qualche personaggio; ciononostante la narrazione è ammaliante, elegiaca e prosaica nella sua rappresentazione e nella sua presa di coscienza di un cambiamento ineluttabile. Non c’è nulla di puro: i bambini sono influenzati dai cattivi comportamenti, dal piacere malato portato dai conflitti con tanto di uso di armi imitato dai piccini intenti a guardare in camera (che colpa per gli americani!); i ricordi dei personaggi sono sbiaditi, impossibilitati di combaciare con la desolazione contemporanea. Il Messico per Pike era sinonimo di serenità, di sfoggio dei propri vizi quali denaro e belle donne; eppure la situazione anche oltre la frontiera è cambiata: non ci sono più i pellerossa del classicismo, ma fiumi di alcol, egoismo e sadismo, sesso e potere legati dalla perversione del generale Mapache e il suo stuolo di cortigiane, nonché dai suoi accompagnatori più fedeli. Uno di questi è tedesco, guarda caso, come a indicare e a denunciare in un certo senso tutta la violenza e l’ingordigia delle dittature. Il generale Mapache è pigro ma allo stesso tempo astuto e folle nel perseguire i propri fini egoistici quali il controllo sul territorio messicano e il cucire buoni rapporti con gli americani. 

 

La polvere del West si innalza ed entra in scena inquadrata dalla macchina da presa, generando una tempesta che porta ad una confusione dei ruoli e della morale. I personaggi sono sfaccettati e presentano allo stesso tempo sentimenti e azioni contrastanti: una miscela sopra le righe di crudeltà e solidarietà, violenza e dolcezza, rabbia e malinconia. Quest’ultimo è accompagnata, nella messa in scena, da canzoni di origine messicane che pervadono le atmosfere di tristezza per un tempo ormai andato. Il vecchio West, lascia spazio al nuovo: il postmoderno, influenzato da aspetti socio-culturali reali. Gli americani, così come i banditi del film, vagano per le strade tormentati dalle colpe, forzatamente esiliati dalla tranquillità di una volta che è stata spazzata via dalla violenza: gli Stati Uniti si divorano internamente, logorati dalla tragicità degli eventi. E allora, una deformazione allucinata abbraccia la storia di questi personaggi alla ricerca di qualcosa per cui valga la pena vivere. C’è di tutto ne Il Mucchio Selvaggio, a partire dalla distruzione dei miti della famiglia, della legge, della giustizia, dell’amore; ma a primeggiare è la paura della vita, talvolta spietata nella sua formula di azione-reazione, confusa dal progresso e dalla violenza della rivoluzione. La rapina sul treno si trasforma in un piano silenziosamente ragionato; la possibile storia d’amore, quasi sempre presente nei western, si trasforma anch’essa in omicidio o in alternativa in una gang-bang nella botte di vino.

 

Un racconto, un’epopea elegiaca di uomini senza tempo e senza patria, nichilisti e abbandonati a loro stessi, travolti da un infimo destino. Il finale, con la cattura e l’uccisione di Angel, sadicamente torturato dagli uomini del generale, decretano la morte con onore dei banditi di Pike, attratti dalla vendetta. Prima dei titoli di coda, Deke trova i cadaveri ma ne resta scosso, perché infondo c’era ancora del bene in lui nei confronti dei compagni di una vita. Inesorabilmente Deke, come lo spettatore, prende atto passivamente della morte, sentendosi in qualche modo colpevole della propria non-azione o, in caso contrario, delle cattive azioni