The Rocky Horror Picture Show: don’t dream it, be it

È uno dei cult più amati della storia del cinema, nonché uno dei musical più celebri: The Rocky Horror Picture Show è un viaggio nella storia del genere e un dominio di forma e perfettibilità.
The Rocky Horror Picture Show: don't dream it, be it

Quando, nel 1975, The Rocky Horror Picture Show fece il suo esordio nelle sale cinematografiche americane, il risultato fu disastroso al botteghino per un film che veniva dal clamoroso successo del musical e che sembrava non incontrare il gusto del pubblico borghese, familiare e conservatorista americano; nulla che facesse pensare a una mancanza di condivisione dell’ideale raccontato (siamo già una generazione dopo il movimento sessantottino), eppure qualcosa sembrò non andare; finché l’intuizione non divenne realtà è la 20th Century Fox decise di proiettare il film negli spettacoli americani notturni, con il risultato di un cult diventato praticamente immortale. Non sognarlo, siilo, ci dice Frank-N-Furter in uno dei passaggi del film e, ancora oggi, The Rocky Horror Picture Show sembra essere il risultato di un meraviglioso sogno lucido, di un elemento unico e intangibile di cui fatichiamo anche a parlare.

Un viaggio all’interno della storia del musical

Prima di essere ogni altra (giusta, necessaria) cosa, The Rocky Horror Picture Show è innanzitutto un film estremamente valido nella sua cornice puramente tecnica, che garantisce il riporto sul grande schermo di un lavoro da palcoscenico e che – complice anche un atteggiamento radicato nella storia del cult al cinema – porta al superamento di quel valico che necessariamente si ritrova nel contatto tra pubblico e opera; parliamo, di certo, di un elemento tanto scenico quanto narrativo, determinato dalla rottura della quarta parete che in più occasioni ci avvicina al Frank-N-Furter di Tim Curry, che bagna e sporca la macchina da presa, parla allo spettatore, lo accompagna con smorfie reiterate nel corso della narrazione e lo saluta idealmente spiegandogli che “anche ridere gli provoca dolore”. Fin dal momento in cui The Rocky Horror Picture Show è stato portato a teatro, il rapporto con il pubblico è stato fondamentale, dati i numerosi scambi di battute tra personaggi dell’opera e spettatori: questa chiave, che naturalmente sarebbe impossibile da riportare all’interno di un film se non con un taglio kitsch, viene invece misurato in quel viaggio compiuto tanto dai protagonisti del lungometraggio quanto dallo spettatore.

Per certi versi, seppur non parliamo di bene e male o di spazi fisici ben definiti (la galassia di Transilvania, di cui fa parte il pianeta Bisesso, è semplicemente un’allegoria), quello effettuato dai due fidanzati nel film è una discesa verso il dissacrarsi dell’atteggiamento borghese convenzionale, e siamo convinti del fatto che anche lo spettatore – a meno che non già investito da certi elementi ideologici o inviso a questi ultimi – sia, resistenze a parte, accolto nello stesso campo creativo, che del resto è un contesto anche filmico, con il musical iniziale che omaggia la tradizione degli anni ’40 (con le scenografie posticce che si mostrano in quanto tali e con il movimento danzante dei protagonisti nell’atto di cantare) e con le forme archetipiche di un genere in cui la canzone spezza il ritmo della narrazione, eppure la porta avanti nelle sue declinazioni tematiche; la domanda che ci si pone, poi, è la seguente: che cosa succede a due figli di una cultura borghese, vissuti in un sistema di credenze sempre uguale, se incontrano tutto ciò che hanno sempre ritenuto sbagliato? La risposta più immediata sarebbe: lo rigetteranno, e così è in effetti all’inizio di The Rocky Picture Show, con lo spettatore che stranisce nei confronti del time warp, ma che poi inizia a essere sempre più coinvolto in sesso, rock ‘n’ roll e in strane creazioni che reinventano il mito di Frankenstein. Alla fine del film, quando il musical si è già trasformato ed è in grado di masticare e fagocitare se stesso, in un’opera di sublime declinazione, sembra tutto estremamente chiaro e manifesto, nonostante l’esperienza in sé resti illuminante e unica nella sua funzione; quasi come se ciò che si apprende fosse, in realtà, stato sempre dentro di noi.

The Rocky Horror Picture Show e il dominio della perfettibilità

Quella di The Rocky Horror Picture Show non è una storia di stranezze, come tentava di spiegare Meat Loaf – colui che dapprima si disse contrario a racconti su travestiti, poi ne colse il valore da commedia fin dallo spazio del palcoscenico -, né una reale parabola di liberazione sessuale; immaginare il periodo storico del 1975 come momento in cui certe declinazioni fossero proibite, o addirittura sconosciute, vuol dire essere anacronistici e non è un dettaglio il fatto che questa ideologia sia considerabile di seconda ondata, lontana cioè da un’espressione pura e concreta dello spazio di conquista. Il film arriva allora in un momento storico diverso, che sublima e cristallizza nella cultura popolare tracce di pre-esistenza, stabilendo degli spazi di dominio (creativo, narrativo, concettuale) e iniziando a ragionare su elementi che ancora oggi sono parte di un dibattito.

Si parla tanto di machismo, ad esempio, e nella maggior parte dei casi tutto ruota intorno a quella ridicola virilità dell’uomo che stabilisce con urla e schiamazzi il suo spazio nel dibattito, ma che trova massimo compimento nella figura di Rocky, il mostro di Frankenstein del sesso, l’esplosione di ormoni con metà cervello e tutti muscoli, a cui non si conferisce mai il dono della parola, se non attraverso la musica. E i muscoli, nell’idea di quella perfettibilità che non ha scopo, ma che trova nel massimo piacere possibile la sua funzione, ritornano anche in tutto il comparto scenografico del film, che omaggia la figura plastica dell’uomo dal Discobolo alla figura di Atlante, passando per il più celebre degli affreschi di Michelangelo, La creazione di Adamo; proprio Michelangelo, del resto, di cui la storia dell’arte spesso parla sottolineando un’omosessualità mai espressa (falso) e apparentemente dimenticando di quale fosse il reale scopo di tutta la sua arte: il dominio della forma, l’ossessione per il corpo, la conoscenza precisa e perfezionistica di ogni nervo, ogni muscolo, ogni tendine umano. Nulla è lasciato al caso, in un film che forse pecca solo di un finale troppo dilatato nella sua messa in scena, ma in cui anche la cura delle geometrie, dei colori – oltre che dell’alternanza tra le illuminazioni destinate a ognuno – e degli spazi non è mai banale: per rappresentare il caos serve la più grande presa di coscienza dell’ordine, e The Rocky Horror Picture Show è in grado di dimostrarlo fino all’ultimo secondo, con un passetto più a sinistra e con un movimento pelvico.

Il tuo voto

The Rocky Horror Picture Show
The Rocky Horror Picture Show

Due fidanzati si ritrovano a un castello abitato dallo scienziato pazzo Frank-N-Furter, ma ben presto conosceranno un ambiente più particolare di quanto possano immaginare.

Voto del redattore:

8 / 10

Data di rilascio:

27/10/2025

Regia:

Jim Sharman

Cast:

Tim Curry, Susan Sarandon, Barry Bostwick, Richard O'Brien, Patricia Quinn

Genere:

Musical, commedia, fantascienza, horror

PRO

L’impatto storico del film
Il lavoro impeccabile per scenografie, forme e citazioni
Le interpretazioni e l’impostazione dei personaggi
Tutte le canzoni
Il finale piuttosto sfilacciato