Negli ultimi anni, il cosiddetto elevated horror, quel filone autoriale spesso più interessato al sottotesto che allo spavento, ha conquistato pubblico e critica, diventando (quasi sempre) sinonimo di qualità nel panorama del cinema dell’orrore. Ma c’è stato un tempo, neppure troppo lontano, in cui l’horror riusciva a colpire duro senza bisogno di sovrastrutture concettuali, restando fedele alla sua natura più fisica, istintiva e diretta. The Descent – Discesa nelle tenebre (2005), scritto e diretto da Neil Marshall, è un esempio perfetto di quel tipo di cinema: un’esperienza claustrofobica e viscerale, che non si limita a mettere in scena una discesa in una grotta, ma ci trascina giù, metro dopo metro, nei recessi più bui della psiche e della paura umana. Con questo film, Marshall firma quello che molti considerano il suo capolavoro: un survival horror teso, oscuro, costruito con la lucidità di un incubo che sa dove colpire. Nessuna concessione, nessuna via d’uscita facile: solo tensione, perdita e oscurità. E quando si riemerge, se si riemerge, niente è più come prima. In occasione del ventesimo anniversario, The Descent è stato restaurato in 4K e presentato in anteprima italiana al TOHorror Fantastic Film Fest di Torino. La proiezione, tenutasi il 21 ottobre al Cinema Massimo, ha avuto come ospite speciale il regista Neil Marshall, che ha introdotto personalmente il film e si è confrontato con il pubblico, condividendo dettagli sul processo creativo e le sfide dietro la realizzazione di questo cult dell’horror.

Dentro l’abisso: l’oscurità psicologica di The Descent
Un gruppo di amiche si ritrova nei monti Appalachi per un’avventura speleologica che, almeno all’inizio, sembra un’occasione per rafforzare i legami e superare vecchi traumi. La discesa nelle profondità della terra si trasforma rapidamente in un incubo senza via d’uscita: le protagoniste rimangono intrappolate in un labirinto di grotte inesplorate, dove il buio non è solo assenza di luce, ma una presenza tangibile e opprimente. E ciò che si nasconde nell’oscurità si rivela molto più minaccioso di quanto avessero immaginato. Fin qui, The Descent potrebbe sembrare un classico film di mostri, con una struttura riconoscibile e dinamiche da creature feature. Ma Neil Marshall gioca su un altro livello. Il regista utilizza l’ambiente sotterraneo non solo come cornice fisica del racconto, ma come metafora della discesa psicologica delle protagoniste. In particolare di Sarah (un’ottima Shauna Macdonald), una donna profondamente segnata da un lutto traumatico: il suo dolore non è un semplice elemento di background, è un eco costante, quasi tangibile, che accompagna ogni passo dentro l’oscurità. Le pareti della grotta diventano così lo specchio della sua mente fratturata, e il viaggio diventa tanto fisico quanto interiore. L’orrore esterno, quello delle creature che abitano il buio, si sovrappone all’orrore interno, fatto di perdita, colpa, e di fratture emotive mai davvero sanate.
In questo senso, The Descent si allontana dal semplice intrattenimento horror e si avvicina a una forma di tragedia viscerale, in cui la tensione narrativa si nutre tanto della paura del nemico quanto dell’incertezza di sé. Marshall costruisce The Descent come un film in due atti ben distinti: la prima parte è un esercizio magistrale di tensione psicologica, dove la paura nasce dall’ambiente stesso. Il buio, i passaggi stretti, l’assenza d’aria diventano elementi di terrore puro. Nella seconda parte, quando entrano in scena i crawler, esseri pallidi e famelici che abitano la caverna, il film vira verso l’orrore fisico, animalesco, ma senza perdere profondità o coerenza. È impossibile non cogliere, in questa progressione, l’influenza di Alien di Ridley Scott. L’intero impianto del film, ovvero un gruppo isolato in un ambiente chiuso e inospitale con una minaccia sconosciuta che viene progressivamente rivelata, ricorda il setting del classico di fantascienza del 1979 trasponendolo però dal vuoto siderale dello spazio al grembo della Terra. Come Ripley, anche Sarah attraversa un percorso di trauma, perdita e rinascita, emergendo come figura ambigua e trasformata, segnata da un dolore che il film non si premura mai di esorcizzare.
Ma The Descent non è solo un film “alla Alien”. C’è anche, nel modo in cui Marshall orchestra la tensione e il terrore fisico, un certo tipo di eredità del cinema di John Carpenter: l’uso preciso del suono, la gestione del gruppo e la lenta erosione dei legami umani di fronte al panico. Come ne La Cosa (1982), la vera minaccia non è soltanto esterna, ma interna: il sospetto, la paura e il senso di tradimento reciproco sgretolano progressivamente l’unità delle protagoniste, fino a farle diventare specchi distorti le une delle altre.
The Descent: la dinamica della paura attraverso la claustrofobia
Tecnicamente, The Descent si rivela un piccolo gioiello nel panorama horror contemporaneo. La fotografia di Sam McCurdy gioca con l’illuminazione diegetica (torce, razzi, bastoncini luminosi) per creare un universo visivo estremamente realistico e coinvolgente. I colori sono volutamente al limite del percepibile: i rossi saturi e i verdi tossici scolpiscono le pareti della grotta come fossero ferite aperte, trasformando lo spazio da semplice scenario a elemento psicologico attivo nella narrazione. Il montaggio, calibrato con precisione, alterna momenti di immobilità soffocante a improvvise esplosioni di caos visivo. Questa alternanza mantiene costante la tensione senza mai cadere nel rumore di fondo o nel frastuono gratuito. Neil Marshall dimostra una padronanza rara della grammatica del genere horror: ogni inquadratura è studiata per aumentare il senso di oppressione e claustrofobia, mentre ogni dettaglio sonoro, dalle gocce d’acqua agli scricchiolii, fino ai respiri affannati, diventa parte integrante della costruzione del terrore.
Un altro elemento distintivo di The Descent è la scelta di un cast interamente femminile, rappresentato con grande rispetto e senza scadere in ammiccamenti o forme di voyeurismo che spesso affliggono il cinema di genere. Questa decisione non è soltanto estetica, ma contribuisce a dare al film una dimensione simbolica più ampia: la discesa nella grotta si trasforma in un vero e proprio rito di passaggio, un inabissamento che simboleggia l’immersione negli strati più oscuri e nascosti dell’inconscio collettivo. In questo senso, la narrazione non si limita a raccontare una semplice avventura o una lotta per la sopravvivenza, ma assume un valore mitologico e psicologico, esplorando le paure primordiali e i conflitti interiori delle protagoniste. A tal proposito il finale del film sigilla The Descent come un’opera tragica e memorabile: Neil Marshall sembra suggerire che non c’è una risalita possibile dal trauma profondo, una volta che l’oscurità è stata vista essa non si dimentica più. Questo epilogo lascia un senso di inquietudine duraturo, contribuendo a rendere il film non solo un horror efficace, ma anche una riflessione profonda sul dolore e sulla perdita.

The Descent, vent’anni e non sentirli
In un’epoca in cui il cinema horror sembra spesso affidarsi a jumpscare preconfezionati e a meccanismi costruiti a tavolino, The Descent – Discesa nelle tenebre (il titolo completo in italiano) si distingue come una vera lezione di cinema pura e consapevole. È un film che punta tutto sull’esperienza fisica dello spettatore: compatto nella struttura, disturbante nella sua capacità di immergerti in un’oscurità palpabile, ma al tempo stesso profondamente umano nella sua esplorazione del dolore e della paura. Neil Marshall non si limita a raccontare una storia di sopravvivenza, ma riesce a trasportare lo spettatore in un vortice claustrofobico che ti inghiotte, ti soffoca, fino a lasciarti solo nel buio più totale. Alla fine della visione, la sensazione che rimane è quella di essere stati trascinati in un viaggio viscerale e disturbante, un’immersione totale in un universo di oscurità tangibile e psicologica.
La pellicola non concede facili vie di uscita né consolazioni narrative: la liberazione resta ambigua e la salvezza incerta. In questo senso, The Descent non è solo un esempio di survival horror ben realizzato, ma un’opera che invita a riflettere sulla natura del trauma e sulla complessità delle emozioni umane. Vent’anni dopo rimane ancora un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia comprendere come l’horror possa raccontare storie potenti, sfruttando sensibilità tematiche che toccano il cuore e la mente degli spettatori. Un film che ti inghiotte, ti soffoca e, soprattutto, ti costringe a confrontarti con le tenebre, lasciandoti con una domanda inquietante: davvero vuoi riemergere?








