L’occhio che uccide, scoptofilia e il braccio artificiale

Ritorna nelle sale cinematografiche italiane, grazie al lavoro della Cineteca di Bologna, L’occhio che uccide di Michael Powell, film che fece scandalo nel 1960: ma vale la pena recuperarlo?
L'occhio che uccide, scoptofilia e il braccio artificiale | Recensione del cult di Michael Powell

Grazie al lavoro di restauro realizzato dalla Cineteca di Bologna, ritorna nelle sale cinematografiche italiane L’occhio che uccide, il film scandalo di Michael Powell che nel 1960 terrorizzò (e a ben vedere, possiamo parlare di un risultato particolarmente premeditato) il pubblico; adattamento italiano di Peeping Tom, espressione con cui generalmente si definisce il “guardone”, L’occhio che uccide è un trattato interessantissimo sul voyeurismo, sul rapporto maniacale e quasi erotico tra l’uomo e la macchina da presa, in una messa in discussione del dispositivo filmico rappresentato non solo nella sua concretezza, ma anche nel rapporto tra ciò che osserva e ciò (o chi) viene osservato; vediamo di seguito tutto ciò che c’è da sapere a proposito nella recensione di L’occhio che uccide.

L’occhio che uccide e il confine tra erotismo e terrore

Secondo una delle tradizioni più radicate nella cultura anglosassone, la bella Lady Godiva, moglie del conte Leofrico di Coventry, chiese a suo marito di rendere le tasse per la popolazione meno stringenti, dal momento che quest’ultima ne soffriva: di tutta risposta il conte, che si rifiutò di accettare i suggerimenti di sua moglie, le disse che l’avrebbe ascoltata solo se avesse cavalcato nuda nelle vie della città: Godiva lo prese alla lettera e, sfidando il potere di Leofrico, decide di spogliarsi delle sue vesti e di cavalcare, quando fu vista da Tom, un sarto di Coventry che decise di praticare un foto nella persiana del proprio appartamento. Leofrico di Coventry, di fronte al gesto di sua moglie, decise di abbassare le tasse ma, secondo la tradizione, Tom perse la vista a causa del suo atto sacrilego; è sulla base di questa leggenda che si è costruita una delle espressioni più care nella cultura anglosassone, “peeping Tom”, che fa riferimento alla figura del guardone e alle conseguenze nefaste del voyeurismo.

A scrivere questo vero e proprio trattato meta-cinematografico, diretto da Michael Powell in una delle opere più importanti della sua carriera (soprattutto se in assenza del poi collega Pressburger), è il crittografo Leo Marks, che mette nero su bianco l’effetto della sua ossessione per il guardare, più in generale per lo sguardo. Quello di L’occhio che uccide è un lavoro lucidissimo, che sa riflettere sul rapporto che c’è tra l’oggetto della visione e le conseguenze disastrose della morbosità, dell’ossessione, dell’osservazione dell’atto: ragionando su un tema che era stato tanto caro anche ad Alfred Hitchcock – del resto il suo La finestra sul cortile del 1954 è un importantissimo trattato sul voyeurismo -, il regista britannico realizza un’opera ancor più spinta e lucida nella rappresentazione di quel confine tra erotismo e terrore, conferendo a Carl Boehm, pseudonimo per Karlheinz Böhm, il ruolo di un protagonista mutevole, diremmo quasi binario; da un lato maniacale, lucido e incredibilmente preciso quando il suo sguardo è filtrato dalla macchina da presa, dall’altro infantile, addirittura bambinesco nei rapporti più personali, in quei piccoli frammenti di vita che non vengono catturati dall’occhio del suo “braccio artificiale”, così come viene definito nel film. La macchina da presa diventa, dunque, non soltanto un’appendice di sé, ma parte integrante del proprio stesso corpo, in un rapporto addirittura onanistico che il protagonista sembra intrattenervi: la bacia, la accarezza, ne è totalmente ossessionato, fino al punto da mettere in campo il suo progetto di osservazione della paura e del suo volto.

La recensione di L’occhio che uccide: il trattato metacinematografico di Michael Powell

Lo scandalo provocato da L’occhio che uccide non tardò ad avere degli effetti soprattutto in patria, dove Michael Powell ebbe grandi difficoltà successive nel corso della sua carriera; la sensazione è che L’occhio che uccide si ponga in un modello di spartiacque necessario nella storia del cinema e del paese stesso in cui venne concepito, per dare sfogo ad un senso di repressione e terrore sociale che anticiperanno il cambiamento radicale nell’impostazione ideologica e politica del paese, con il governo del pugno di ferro di Margaret Tatcher; un enorme senso di estraniazione che, nella rappresentazione del protagonista Mark Lewis – filmato in ogni istante della sua vita dal padre, che lo considera il più grande oggetto di studi della sua esistenza, soprattutto nella sperimentazione della paura e dei suoi effetti sul sistema nervoso – trova la chiave di lettura di un popolo totalmente immerso in un sistema caotico; la cornice della macchina da presa, con lo split screen che porta lo schermo a essere diviso in quattro parti nelle sezioni in cui osserviamo dalla prospettiva di Mark, tenta allora di fornire un’immedesimazione, tema focale nella cultura del dispositivo e del suo rapporto tra spettatore e oggetto catturato dalla macchina da presa.

Ne derivano soluzioni metacinematografiche che si intravedono non soltanto nella dinamica thriller e nel rapporto hitchcockiano tra spettatore e personaggi, con il primo onnisciente rispetto alla volontà del killer, ma anche in numerosi segmenti del film in cui l’immedesimazione di chi guarda viene restituita anche dal punto di vista sensoriale: ne è un esempio il momento in cui la madre cieca di Helen tocca il polso di Mark e il sonoro restituisce proprio il senso del battito cardiaco, o della scena che vorrebbe essere comica del film in cui Mark sta lavorando, ma finisce per risolversi in tragedia; quel senso di commedia strozzata, allora, viene scandita dal volto e dalle parole di un regista stanco e scostante, che offre gli unici momenti di ironia all’interno del film; in questo rapporto morboso, quasi viscerale, tra spettatore, personaggi e macchina da presa, Powell dimostra tutta la sua enorme cultura del sesso e dell’erotico, che poi si manifesterà in ben altro modo e lo porterà a diventare uno dei massimi esponenti di una cultura della carnalità, in collaborazione con Emeric Pressburger. L’occhio che uccide, pur in quei (rarissimi) limiti che si osservano in quanto segno del tempo, rappresenta però un trattato meta-cinematografico importantissimo, che fa della scoptofilia (o voyeurismo, che dir si voglia) il suo tema focale e che sa anticipare, in maniera lucidissima, tutti quei lavori successivi che si concentreranno poi sullo sguardo e sulla cultura dello spettatore di fronte all’oggetto osservato.

L'occhio che uccide
L’occhio che uccide

Mark Lewis è un uomo che è stato filmato in ogni giorno della sua vita dal padre, e che sviluppa una particolare ossessione per la paura e per la sua rappresentazione.

Voto del redattore:

8 / 10

Data di rilascio:

16/05/1960

Regia:

Michael Powell

Cast:

Carl Boehm, Anna Massey, Moira Shearer, Maxine Audley

Genere:

Thriller

PRO

La tensione erotica/orrorifica che si respira nel film
L’interpretazione glaciale di Carl Boehm
La riflessione sul voyeurismo e sulla cultura del dispositivo
Nessuno