Tra gli autori più eclettici in circolazione, il regista e pittore Julian Schnabel torna dietro la macchina da presa a distanza di 7 anni dal precedente Van Gogh – Sulle Soglie dell’Eternità, che valse a Willem Dafoe una Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile a Venezia 75. Il suo ultimo e travagliato progetto si intitola In the Hand of Dante e, dopo una tumultuosa lavorazione, arriva finalmente proprio al Lido, essendo stato selezionato fuori concorso per l’82esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Con un cast ricco di star del calibro di Oscar Isaac, Gerard Butler, Jason Momoa, Gal Gadot e addirittura Martin Scorsese e Al Pacino, il lungometraggio è stato realizzato per buona parte in Italia, motivo per cui sono presenti anche volti noti come Claudio Santamaria o Sabrina Impacciatore. A seguire, trama e recensione di In the Hand of Dante.
La trama di In the Hand of Dante, presentato in anteprima a Venezia 82
Presentato in anteprima fuori concorso a Venezia 82, In the Hand of Dante segna il ritorno dietro la macchina da presa del regista e pittore statunitense Julian Schnabel, 7 anni dopo la sua ultima volta. Prima di passare all’analisi e recensione del film però, è bene spendere due parole sulla sua trama, così da dare maggior contesto:
“In the Hand of Dante segue la storia di un uomo che intraprende un viaggio oscuro e violento, un vero e proprio inferno che lo condurrà fino al suo personale paradiso, guidato dall’ossessione per un amore proibito e impossibile. Lui è Nick, uno studioso solitario e disilluso, chiamato dalla mafia per autenticare un misterioso manoscritto riemerso, nientemeno che l’originale perduto della Divina Commedia. Sconvolto dall’immensa scoperta e spinto dal desiderio di rivalsa, Nick decide di tradire i suoi mandanti e fuggire con il prezioso volume insieme a Giulietta, la donna che ama. Si scatena però una pericolosa caccia all’uomo che dà il via a una cospirazione che intreccia presente e passato. Parallelamente infatti, il film ci conduce nell’Italia del XIV secolo, dove un giovane Dante Alighieri, intrappolato in un matrimonio infelice e in crisi spirituale, fugge in Sicilia per inseguire l’ispirazione e dare forma alla sua visione poetica. Sostenuto da un enigmatico mentore, Dante scrive la Commedia, opera destinata a cambiare il corso della letteratura”.
La recensione di In the Hand of Dante, diretto da Julian Schnabel
Non c’è niente da fare: ogni anno, quando viene annunciata la selezione della Mostra del Cinema di Venezia, si parte con le critiche prima ancora di arrivare al Lido. Una volta ci sono solamente grandi nomi e non si lascia spazio alla ricerca di autori emergenti, un’altra di nomi altisonanti ce ne sono una manciata e quindi si è troppo indietro rispetto a Cannes e, di conseguenza, non valiamo nulla. Ragionamenti che, inutile sottolinearlo, sono privi di valore anche perché nascono a priori e per partito preso, con la storia che ci insegna come sia impossibile prevedere l’andamento di una manifestazione di questa portata prima ancora che inizi e, soprattutto, senza aver visto i film. È altresì vero che le voci si rincorrono e che alcuni lungometraggi sono più attesi di altri. Quest’anno, fuori concorso c’è uno dei più chiacchierati degli ultimi tempi, il tanto travagliato In the Hand of Dante che, poche settimane prima della Mostra, ha subìto un leak che ha reso illegalmente disponibile il film a tutti. Non il massimo insomma, ma forse il segnale che qualcosa, nella sua lavorazione, non ha mai funzionato.
Julian Schnabel è di casa a Venezia: è qui che ha presentato quelli che sono probabilmente i suoi due lavori più importanti, ovvero Prima che sia Notte e Van Gogh – Alle Soglie dell’Eternità e con entrambi è riuscito ad entrare nel palmares delle rispettive edizioni, nello specifico vincendo prima il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria e poi una Coppa Volpi grazie all’interpretazione di Willem Dafoe. Un pittore, prima ancora che regista, che ha trovato nella settima arte un nuovo mezzo per esprimersi e finalmente, dopo un decennio e dopo un lunghissimo tira e molla – i produttori insistevano che egli lo tagliasse fino a due ore e che fosse tutto a colori, ma Schnabel si è imposto ed è riuscito a mantenerlo sui 150 minuti e con buona parte in bianco e nero, che è poi esattamente la versione vista a Venezia – il tanto desiderato film su Dante Alighieri e la Divina Commedia è potuto diventare realtà. Peccato però che sia un disastro.
Come detto, forse tutti i problemi produttivi non erano altro che un monito di ciò che stava accadendo, ma non c’è davvero nulla che funzioni in In the Hand of Dante. Anzi, peggio ancora, quei pochi elementi di interesse sono stati affogati in un mare cliché ed in un’opera scritta e diretta in maniera davvero discutibile e poco importa se è stata tratta dall’omonimo romanzo di Nick Tosches. Si parte da un incipit così poco originale da far paura: un libro antico che nessuno sapeva esistesse, in realtà esiste e, mettendo insieme una coppia improbabile, lo si va a rubare per poterne ricavare una fortuna inestimabile. Ma va bene, fino a qui possiamo anche accettarlo. L’insofferenza inizia con il vedere Oscar Isaac, bellissimo e vestito benissimo, con occhiale da sole e capello perfetto che si muove come Christian Bale in Armani nel Knight of Cups di Terrence Malick e che, chi l’avrebbe mai detto, è in realtà un geniale autore che ha sempre amato Dante. Chi meglio di lui quindi per recuperare il manoscritto. E non è neanche colpa di Isaac che, dato il suo grande talento, prova a tenere in piedi baracca e burattini, ma è il cast stesso ad essere incomprensibile, con un cameo di Al Pacino inutile, Martin Scorsese truccato a metà tra Gandalf e Babbo Natale ed il ruolo di co-protagonisti che, soprattutto nella seconda parte, ricade su Gal Gadot e Jason Momoa che magari sono persone simpaticissime ma che, con la recitazione, hanno davvero poco a che fare. Proprio l’interprete di Aquaman, insieme a Sabrina Impacciatore, ci regala una sequenza finale talmente imbarazzante da non crederci.
Noi proviamo a sdrammatizzare e farci due risate perché la verità è che In the Hand of Dante è un progetto grossolano e che manca proprio in ciò che non dovrebbe mai mancare in un pittore come Schnabel, ovvero colore, anima, calore, cuore e la scelta di realizzarlo per buona parte in bianco e nero – e, anche in questo caso, più da spot di un profumo che da film in anteprima alla Mostra del Cinema – è un autogol di proporzioni indescrivibili. È un attimo dunque che, mettendo insieme tutti questi elementi, il film si trasformi in pretenzioso e presuntuoso, innervosendo uno spettatore che già fatica ad arrivare al termine dei suoi estenuanti 150 minuti. Un buco nell’acqua.








