Articolo pubblicato il 21 Giugno 2025 da Christian D’Avanzo
Heart Eyes, che in Italia è arrivato nei cinema da giovedì 12 giugno 2025 e con il sottotitolo Appuntamento con la morte, è un film commedia-horror prodotto in Nuova Zelanda. Si tratta di un lungometraggio diretto da Josh Ruben, con protagonista la coppia formata dall’attrice Olivia Holt (Totally Killer) e dell’attore Mason Gooding (Scream V; Scream VI), e che presenta una durata di circa 97 minuti. L’intento era quello di offrire al pubblico di appassionati (e non) un nuovo titolo che potesse funzionare nell’attuale panorama slasher, mescolando tratti demenziali-parodistici ad altri tipicamente horror, producendo quindi dei contenuti puramente contemporanei e in linea con la postmodernità. In virtù di quanto appena descritto, com’è allora Heart Eyes? Di seguito la recensione.

La recensione di Heart Eyes: dominano volgarità e sangue in un film arido di pensieri
Nello scenario contemporaneo, il sottogenere slasher è tutt’altro che morto, anzi: si dimostra sorprendentemente vitale sia sul piano autoriale che su quello commerciale, e non mancano eccezioni particolarmente riuscite in entrambi gli ambiti, come la saga di Scream (almeno fino al quarto capitolo, a giudizio di chi scrive). Sul versante autoriale spicca In a Violent Nature, film indipendente che rappresenta uno degli esempi più creativi degli ultimi anni, mentre in ambito commerciale è impossibile non citare la trilogia di Terrifier di Damien Leone. La contrapposizione tra i due non risiede tanto nei risultati quanto nell’approccio, poiché In a Violent Nature gioca con i codici del genere in modo referenziale, ludico e metatestuale; Terrifier, al contrario, punta tutto sulla spettacolarizzazione dell’elemento splatter, in un’esasperazione visiva fine a sé stessa, ma che è figlia dei tempi che corrono. Tale premessa ha lo scopo non solo di introdurre la recensione di Heart Eyes, bensì di inserire quest’ultimo nella amalgama informe di quei film slasher che provano a stare nel mezzo senza riuscirvi, annullando qualsivoglia tentativo di dar vita ad un prodotto dignitosamente originale.
Infatti, il lungometraggio diretto da Josh Ruben è molto più vicino all’essere una commedia demenziale alla Freaky (2020) che ad un’opera autoriflessiva come X (2022), sia per i toni che per la struttura narrativa, eppure nella stragrande maggioranza delle scene dominano volgarità e sangue gratuiti, persino per uno slasher. Il termine demenziale non va – e non deve – per forza inteso in automatico come un aspetto negativo, anzi, ci sono alcuni cult – come Una promessa è una promessa (1996) e The Final Girl (2015) – riuscitissimi proprio perché ingigantiscono alcune caratteristiche del reale rendendole grottesche, assurde, muovendosi sui confini linguistici della parodia. Ciò che offre, o meglio non offre, un film come Heart Eyes è esattamente quello appena menzionato, poiché i personaggi sono immersi in un mondo incattivito, perverso e scurrile, dove però a mancare sono dei riferimenti tangibili alla realtà del nostro presente, incappando sostanzialmente in esemplificazioni grossolane.
Troppo semplice e banale ridurre la società contemporanea ad un caotico gruppo di persone sboccate e sconce, sia nell’ambito professionale che nella vita sentimentale, ragione per la quale questa nuova commedia-horror neozelandese non si prende mai la briga di parodizzare riflettendo ironicamente su cause ed effetti che hanno portato gli individui ad essere così insensibili. Si tratta di un film arido di pensieri, accusa che sembra voler lanciare all’epoca del digitale, dei social media e della spettacolarizzazione del dolore, nonché della morte, perché il modo in cui questa rappresentazione viene messa in scena non fa altro che narcotizzare la sensibilità degli spettatori attraverso contenuti più da TikTok che da cinema.

Heart Eyes è un horror-slasher privo di idee che presenta elementi demenziali depotenziati
Heart Eyes è un horror-slasher che tenta invano di lanciare una nuova icona nell’immaginario collettivo, basandosi su un vecchio successo commerciale quale fu San Valentino di sangue 3D (2009), a sua volta remake del cult del 1981 intitolato Il giorno di San Valentino. Viene rivelato che Occhi a cuore è il frutto della perversione, ma nel verboso e fin troppo lungo finale non si fa altro che rimodellare una sequenza già visto in Scream 3 (2000), conferendo alla villain una psicologia circoscritta con tono serioso, quindi in contrasto con ciò che lo precede. Tutti gli archetipi dello slasher, qui spogliati di ogni tipo di potenziale rimando metalinguistico e metareferenziale, risultano sciatti e ripetitivi, andando a depotenziare gli aspetti demenziali sui quali sembra si sia fondata l’intera struttura di Heart Eyes.
Questo accade quando non si ha una controparte a bilanciare, per cui tutto il lavoro costruito viene meno, nonostante la leggerezza dell’intera operazione consenta di poter osservare i 97 minuti senza annoiarsi. Infatti, l’idea di avanzare una cinica critica su una società quasi esclusivamente estetica, privata di sostanza, a volte nella sua assurdità riesce persino a strappare qualche risata, ma a mancare è poi il fondamentale proseguo dell’ironia, ovvero quella componente riflessiva che renda il sorriso amaro. Uccisione dopo uccisione, colpo di scena dopo colpo di scena, il risultato complessivo porta alla realizzazione di un film pallido, privo di personalità: chi c’è dietro si è preoccupato, lo si ribadisce, più di costruire momenti grotteschi dove le allusioni sessuali (implicite ed esplicite), la volgarità e il cinismo risultano come strumenti per arrivare a una breve memorabilità “tiktokkabile”. Anche gli espedienti drammaturgici sono studiati a tavolino, apparendo eccessivamente forzati, con dei dialoghi talmente macchinosi, innaturali – come se non fossero inseriti in un contesto di riferimento – e privi di incisività, da sembrare generati da un software di Intelligenza Artificiale.
Heart Eyes è figlio dei suoi tempi, laddove però non sussiste alcuna connotazione ludica, metanarrativa e/o metalinguistica, e persino la parodia, nonché le uccisioni del serial killer, sono realizzate in una forma pensata per funzionare in brevi clip anche fuori dal contesto del film. “Figlio dei suoi tempi” implica, allora, che si sta assistendo ad un contenuto che si presta più allo scrolling verticale da smartphone che ad una visione sul grande schermo, poiché la preoccupazione era evidentemente quella di dar vita a nuovi meme. Per fortuna tale scenario non ha preso il sopravvento, e il filone degli slasher è ancora vivissimo per parodizzare davvero (Scream), per riflettere su altri medium e sulla violenza stessa (In a Violent Nature), e per ripensare giocosamente ad alcune figure chiave di questo sottogenere (The Final Girls; Freaky).