Articolo pubblicato il 9 Marzo 2025 da Bruno Santini
Dopo essere stato presentato in anteprima e fuori concorso al Festival di Cannes 2024, Le donne al balcone arriva nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 20 marzo 2025. Diretto da Noémie Merlant, l’horror-fantastico riflette a proposito del femminile, proponendo uno sguardo sicuramente molto interessante e innovativo, determinato dalla commistione di generi e dai numerosi riferimenti al cinema di Almodovar e Tarantino. Ma con quale risultato? Nel tentare di comprendere tutto ciò che funziona e i difetti del film, di seguito indichiamo la recensione di Le donne al balcone di Noémie Merlant.
Le donne al balcone, ma senza un balcone
Diciamo immediatamente, e in apertura di recensione di Le donne al balcone, che del balcone non v’è traccia, se non nei primissimi minuti del film che si occupa di introdurre le tre donne protagoniste del lungometraggio diretto (e interpretato) da Noémie Merlant: Ruby, Elise e Nicole. Potrebbe sembrare un dettaglio di poco conto o una provocazione, ma in realtà chiama in causa un tema che si osserva spesso all’interno di questo film e che costituisce anche parte del suo grande insuccesso: per quanto ci abbia lavorato per ben 4 anni con Céline Sciamma – che l’aveva diretta in Ritratto di una giovane in fiamme -, Noémie Merlant fallisce clamorosamente nella sceneggiatura di un film che abbonda di riferimenti e che ricerca la sua chiave di lettura, il suo senso d’essere e il motivo del compimento del suo messaggio in un approccio inedito, ma che finisce per essere tremendamente didascalico.
Lo diciamo per evitare qualsiasi fraintendimento, ma in realtà costituisce un leitmotiv tanto del film quanto della sua valutazione: non si discute il trattamento del tema né la necessità di effettuare un lavoro di questo genere da parte dell’attrice e regista francese, che di sicuro non si affida alla banalità per accompagnare la trasmissione del suo messaggio. Tuttavia, portare sullo schermo una dark-horror comedy per rappresentare il tema della violenza di genere e dell’abuso (fisico, emotivo, morale) della donna non è certamente un lavoro semplice, e se l’opera che dovrebbe veicolare tale messaggio non riesce ad essere incisiva nella sua cornice, si rischia concretamente di ottenere l’effetto opposto rispetto alla propria aspettativa iniziale. Certo, a proposito di inizi, il film non si presenta male allo spettatore, con quel finto piano sequenza che introduce il primo personaggio, non prima di aver osservato una donna che uccide suo marito dopo aver subito a lungo soprusi e violenza nella sua vita: l’horror è molto ben reso nella sua messa in scena, così come l’ironia della sequenza che introduce tutto ciò che verrà dopo.
Ciò che c’è poi, però, cede al didascalismo e all’incapacità di dar vita ad un lavoro che rispetti la sua forma fino in fondo: il senso del mistero rappresentato dal vicino di casa apparentemente avvenente si risolve tutto, e ai personaggi si lascia soltanto la necessità di raccontare le proprie azioni, senza lasciare che sia mai lo spettatore ad effettuare un lavoro di ricostruzione del tema che viene proposto, nelle sue appendici di stupro, violenza, aborto o ribellione. C’è, poi, un altro problema ancor più marcato rispetto al trattamento del film: l’inserimento dell’onirico, e di quel dialogo tra vita e morte che avviene attraverso il personaggio di Nicole; in ogni occasione in cui ci si rapporta ad esso, si ha la sensazione di un elemento grossolano e di troppo, inserito a forza per tentare di rendere ancor più didascalico il messaggio: in quei casi, però, si ha soltanto l’impressione di scene raffazzonate e scomposte, nonché grossolane e francamente evitabili.

La recensione di Le donne al balcone: tra citazionismo e sovrabbondanza, un film che tradisce il suo tema
Lo dicevamo in apertura di articolo e lo ribadiamo: il senso del tema, e del modo in cui questo viene trattato, è non soltanto giusto rispetto alla volontà di Noémie Merlant, ma anche necessario guardando al periodo storico che viviamo e alle componenti che lo abitano. Lo stesso approccio del film, a dirla tutta, appare molto intelligente e interessante, tanto da portare l’attrice e regista a scegliere una chiave di lettura anticonvenzionale a cui affidare il proprio messaggio, affinché diventi non soltanto globale, ma anche innovativo nella sua forma. Tuttavia, è proprio di forma che c’è bisogno di parlare, dal momento che quest’ultima – accompagnata dalla messa in scena – costituisce una delle anime del cinema che non si può ridurre a sola giustizia tematica.
Pescando a piene mani tra il senso del femminile di Almodovar e della violenza che Quentin Tarantino ha sempre comunicato nell’ambito del suo cinema, Noémie Merlant prova a creare un’opera particolarmente stratificata, in cui far coesistere tante anime: non soltanto stupro e violenza, non solo abusi subiti e donne vittime, ma anche un aspetto successivo, che ha a che fare con il senso della libertà e della reazione, anche violenta, da parte di queste ultime. E ancora la morte che prende forma all’interno del film, la violenza che diventa una componente ironica e il dialogo surreale con l’onirico; ecco, tutto ciò – considerando anche il riferimento a temperature eccessivamente elevate che resta sullo sfondo senza mai dialogare con il film – porta a creare un prodotto scomposto e sbilenco: un minestrone di tante tematiche che non sanno coesistere e che rischiano di tradire il tema stesso del film. Noémie Merlant è particolarmente abile nel ribadire con forza le sue convinzioni, e il lavoro con i corpi (soprattutto con il proprio) è tanto importante quanto ben reso, ma il film cede troppo spesso a semplificazioni banali e a scelte facinorose, che sgonfiano l’importanza del tema e lo riducono a un prodotto kitsch. Un vero peccato, considerate le premesse, osservare tutto nella sua integrità, in 100 minuti che di certo non annoiano o stanco, ma che lasciano un mosaico troppo deforme allo spettatore.