Articolo pubblicato il 12 Marzo 2025 da Vittorio Pigini
Dopo il grande successo all’esordio e lo sfortunato Freaks Out, Gabriele Mainetti torna finalmente sul grande schermo con il suo nuovo film, mettendo nuovamente a segno un’altra contaminazione vincente su più livelli. Ci si riferisce a La città proibita, un thriller di arti marziali ambientato nella Roma di oggi e nel quale prenderà vita una storia di vendetta sopraffatta, forse, solo dall’amore. Una contaminazione che influenza anche lo stesso cast del film, dove una coppia protagonista alle “prime armi” si accosta ad altri celebri volti del nostro cinema. Ecco di seguito la recensione di La città proibita, il nuovo film scritto e diretto da Gabriele Mainetti.
La trama di La città proibita, il nuovo film di Gabriele Mainetti
Successivamente all’acclamato esordio nel 2015 con Lo chiamavano Jeeg Robot e al Freaks Out del 2021, Gabriele Mainetti torna sul grande schermo con il suo terzo film basato sulla sua sceneggiatura scritta a 6 mani anche con Stefano Bises e Davide Serino. La storia di La città proibita è quella di Mei, giovane cinese esperta di arti marziali giunta a Roma in cerca della sorella scomparsa. Nella ricerca la ragazza si imbatterà in Marcello, ragazzo romano che porta avanti l’attività del ristorante di famiglia e che, anche lui, sta vivendo l’improvviso allontanamento del padre. I due si ritroveranno immischiati nella nascosta malavita della capitale, per una storia scissa a metà tra vendetta ed amore.

Gabriele Mainetti il rivoluzionario all’ombra del Colosseo
Fragorosa l’irruzione del fenomeno Lo chiamavano Jeeg Robot all’interno del nostro panorama cinematografico, con l’esordio di un giovane autore che riuscì ad immettere un sapore artistico molto distante dai “soliti confini del Belpaese”. Ponendo a base l’amore verso l’eredità degli anime giapponesi, il film del 2015 con protagonista Claudio Santamaria riesce infatti ad incastrare perfettamente la tendenza allora dominante (i blockbuster dei cinecomic) nella realtà civile, sociale e politica della capitale.
Un’idea di cinema non solo vincente (7 David di Donatello su 16 candidature totali, un risultato epocale per un esordio di questo tipo), ma anche fondamentale per l’industria italiana sotto troppi punti di vista. Un film, purtroppo, che ha incontrato la “sfortuna” di doversi fermare lì e rappresentando più una mosca bianca che un vero punto di svolta. Nonostante ciò, Mainetti ci riprova a rivoluzionare le cose, con lo splendido Freaks Out del 2021 che, ancora una volta, fa un bagno di originalità all’interno della nostra industria. Il film è infatti un fantasy action revisionista, si potrebbe aggiungere di “deltoriana memoria” anche e soprattutto per il ruolo dei freaks protagonisti, con un gruppo di persone speciali (i Fantastici 4) in lotta contro i nazisti.
Anche in questo caso l’accoglimento in termini di riconoscimenti non fu trasparente, con altri 6 David di Donatello ottenuti su 16 candidature dopo il caloroso abbraccio al Festival di Venezia. Tuttavia, oltre all’approccio fantasioso e revisionista del film che non ha saputo convincere gran parte della critica specializzata (da comprenderne ancora il motivo), Freaks Out dovette incontrare un’altra sfortunata calamità, ovvero la pandemia da Covid-19 che, nonostante al botteghino il film si sia rivelato uno dei migliori incassi, ne ha in qualche modo paralizzato l’eco mediatico. Dopo infatti anni in veste di produttore in film come Denti da squalo ed Elf Me, con gli occhi annebbiati dall’utopica illusione La città proibita potrebbe essere veramente il punto di svolta, non solo per lo stesso regista ma anche per la stessa industria.
Sarebbe ingeneroso comunque ammettere come i “passi in avanti” si registrino continuamente da questo punto di vista, basti pensare solo all’ultimo periodo a titoli quali Itaca – Il ritorno, The Well, Home Education o la trilogia di Diabolik, ma sarebbe altrettanto ingiusto non soffermarsi sulla fatica (dal punto di vista artistico e soprattutto da quello produttivo, mediatico e distributivo) che determinate realtà di genere e di idee di cinema riscontrino ogni volta. Così a distanza di 10 anni dal suo esordio, Gabriele Mainetti torna sul grande schermo ancora una volta con un film studiato sotto diversi punti di vista, ancora una volta rinnovandosi con un titolo “rivoluzionario”, ancora una volta partendo dalla sua Roma che si trasforma nella vera protagonista del film.
La città proibita, eterna e multiculturale
Ripartire in questo caso proprio da Roma non rappresenta “solo” un appiglio a questioni di appartenenza alla città natale, ma diventa il fulcro attorno al quale orbita il film stesso. La parola d’ordine in La città proibita è infatti “romanizzazione”, non intesa ovviamente quale invito tribale a fare propri usi e costumi della capitale odierna, quanto proprio al suo antico precetto. Fin dai tempi dell’Impero, infatti, il processo di “eternità” della capitale si è costruito anche e soprattutto grazie al suo speciale rapporto di interconnessione con le altre culture (conquistate, dominate ed accolte).
Oggigiorno, quella disponibilità di intercettare, inglobare e far crescere quella differenziazione etnica e culturale è diventato un taboo, costruito ad arte da un razzismo radicale ed un vento suprematista che continua ciclicamente a tornare nella storia recente del nostro Paese. Tale sciatta ideologia del “prima gli italiani” si scontra inevitabilmente con la natura immutabile della capitale che, per via proprio di questa concezione, da eterna si trasforma in proibita. Il contesto sociale e politico non solo è sempre presente all’interno della filmografia di Mainetti, ma diviene anche un punto di partenza per sviluppare la fantasiosa trama del suo film. La legge del figlio unico in Cina, per bloccare il numero delle nascite, si contrappone così al fenomeno dell’immigrazione in un’Italia che, generazione dopo generazione, sta via via scomparendo.
Non a caso si parla di “generazione” nella recensione del film, con quella in particolare di Annibale che resta attaccata con le unghie e con i denti al metaforico “ristorante di famiglia”, all’appartenenza ad una romanità tossica, ipocrita ed approfittatrice del fenomeno immigratorio solo quando conveniente. La sua figura in qualche modo speculare, Mr. Wang, afferma <<Qui tutto è permesso e niente è importante. Là niente è permesso e tutto ed importante.>>. Il segreto sarebbe così quello di rendere “permesso” ciò che è “importante”, ovvero l’amore, la solidarietà e l’accoglienza ad un nuovo mondo, nuove culture e potenzialità per crescere come individuo. <<L’amore è più forte della legge>> inaugura la visione di La città proibita, in particolare con quello che poi nascerà tra il romano Marcello e la cinese Mei.
Di generazione si accennava poc’anzi, quella “morta” di Annibale (così definito dallo stesso Alfredo che ha trovato l’amore, contro i radicati dogmi sociali) e quella “nascente” di Marcello. Il padre, nel fatale flashback, indica infatti una scomoda verità a quello che pensava essere il suo migliore amico, ovvero l’impossibilità di Marcello di avere figli qualora continuasse a lavorare in quel metaforico ristorante. La generazione alla quale parla La città proibita è infatti quella figlia della globalizzazione, del fenomeno immigratorio, rappresentando su schermo quel legame storicamente imprescindibile tra la città eterna e l’inclusione interculturale. Al di là della famiglia creatasi tra Marcello e Mei, il film esalta la difficile e necessariamente funzionale convivenza tra le varie realtà etniche e culturali di Roma, come ad esempio con il figlio ribelle di Wang perfettamente incluso nella sua nuova casa.

Cinema internazionale tradotto in romano
Il terzo film scritto e diretto da Gabriele Mainetti diviene così un vero e proprio inno alla differenziazione culturale, ad aprire i porti della mente e della disponibilità a voler conoscere nuovi colori e sapori da fare propri. Al di là però del testo sociale, politico e soprattutto umano, la “romanizzazione” del film conquista anche il sottotesto cinematografico. L’inclusione culturale che si richiede non può infatti prescindere anche dalla contaminazione di generi e tradizioni, che Mainetti riesce sempre a portare sullo schermo con i suoi film. Sulla realizzazione del suo lavoro è proprio lo stesso regista a confessare quella inesauribile voglia e ricerca del divertimento, di quel rapporto ludico con il cinema e le sua eredità artistiche e sfumature di tecniche e colori.
Già lo stesso titolo La città proibita riprende l’omonimo film del 2006 diretto da Zhang Yimou (in originale “Mǎn chéng jǐn dài huángjīn jiǎ”, avvicinandosi più a “La città interamente rivestita con armature dorate“, con buona pace della traduzione italiana del film). Se però in quel caso ci si riferisce al cinema wuxia, in questo caso ad approdare nella capitale è il gongfu di Bruce Lee, Jackie Chan ed altri maestri delle arti marziali. Se con i primi due film del regista si guardava principalmente alla tradizione anime del Sol Levante e la spettacolarità delle luci d’Oltreoceano, in La città proibita si assapora pienamente il gusto del cinema cinese, di Hong Kong e del sudest asiatico. Senza dover scomodare inutili e dannosi accostamenti, i bellissimi colori del film ricreati dal lavoro di Paolo Carnera (Io Capitano, Nostalgia) sono infatti quelli divenuti celebri con un autore come Wong Kar-wai ad esempio, spaziando ed arrivando di recente anche al rabbioso titolo vietnamita Furies del 2023.
Tale approccio di contaminazione tra Oriente ed Occidente, come sempre nella filmografia di Mainetti, non può nuovamente prescindere anche dalla cultura più pop del cinema contemporaneo. In tale contesto resta impossibile non fare il nome di John Wick nel panorama dell’action moderno, con La città proibita che mette a segno delle sequenze d’azione a dir poco spettacolari. Questo grazie ad una mano in continua crescita dello stesso regista, ma anche alla collaborazione con addetti ai lavori di primissimo livello che ne hanno curato la parte coreografica. L’impegno dei coordinatori, unito all’occhio personale del regista, porta in scena un tasso di spettacolarità nei combattimenti mai visto all’interno del panorama cinematografico italiano, per un’azione euforica, violenta, sanguinolenta ma anche molto ironica ed ammiccante.
Il ritorno a Roma di Gabriele Mainetti è dunque un ritorno armato di “traduttore”, concretizzando un forte dialogo tra il cinema internazionale (quello dello spettacolo e dei mezzi tecnici) e il cuore, la storia e l’invidiabile ambientazione italiana. La città proibita, infatti, non è “solo” botte spettacolari sullo schermo, ma fa battere il cuore anche grazie al suo cast di protagonisti. Difficile non mettersi sull’attenti dinanzi la prova di Yaxi Liu, al suo sorprendente esordio come attrice sul grande schermo dopo l’esperienza nel live-action di Mulan della Disney. Forse anche troppo highlander in alcuni momenti, dove sembra essere entrata in contatto nella trasformativa sostanza nel Tevere di Lo chiamavano Jeeg Robot, ma la sua Mei è davvero un personaggio molto interessante. Tosta e bellissima, la ragazza ha davvero molto da dire e riesce a far notare la felicità con la quale ammira le “case grandi” di Roma.
Con il film uscito in anteprima proprio nella giornata della Festa della Donna, La città proibita è il film che celebra la determinazione, la forza e la femminilità della Mei di Yaxi Liu, accostata anche da un grande volto come quello di Sabrina Ferilli. Anche Enrico Borello si trova praticamente al suo debutto come protagonista in una produzione importante come quella del film di Mainetti, dopo i suoi recenti ruoli in Familia o nella serie Supersex. Il suo Marcello (e come poteva chiamarsi se non Marcello) tuttavia non riesce a reggere più di tanto il confronto con gli altri grandi nomi del cast, accentuando spesso la sua carica in maniera vistosa. Un personaggio ed un’interpretazione che riesce tuttavia a crescere con il passare dei minuti, rappresentando nel contesto una prova più che efficace.
Come spesso accade in tali contesti, a guidare i giochi sono i villain della storia, con il Mr Wang di Chunyu Shanshan e soprattutto dell’Annibale di Marco Giallini. L’attore, anche del recente Follemente di Paolo Genovese, riesce anche a far emergere le sue grandi qualità da commediante nel far risultare simpatico quello che risulta essenzialmente essere uno spregevole trafficante di esseri umani nonché boss della malavita. Questo almeno fino al concitato finale del film, dove riaffiora il suo animo corrotto dall’onore, dal materialismo e dal tossico attaccamento alla sua storia ormai passata.
In conclusione, dopo i suoi due primi film (tanto di successo quanto sfortunati in egual misura) il regista Gabriele Mainetti torna sul grande schermo riuscendo a rivoluzionare ancora una volta non soltanto il suo cinema ma anche e soprattutto un’intera industria. Un’affermazione più utopistica che realistica questa, volta a sottolineare il fondamentale e necessario approccio tecnico ed artistico che produzioni di questo tipo continuano a rinvigorire e ringiovanire il nostro cinema. Entrando nel merito di La città proibita, inoltre, il film è una spettacolare storia di vendetta alimentata dall’adrenalina di grandissimi combattimenti che, tuttavia, non oscurano un grande cuore in termini tematici e di approccio umano del film oltre a quello recitativo. Da ribadire la sorprendente prova da protagonista della debuttante Yaxi Liu.