Articolo pubblicato il 12 Gennaio 2025 da Bruno Santini
Secondo capitolo della tetralogia della fantascienza, presentato in anteprima nel 1981 ma uscito al cinema soltanto anni dopo, La guerra dei mondi è un film di fantascienza di Piotr Szulkin che sfrutta l’immagine del marziano e dell’invasione della Terra per realizzare un racconto molto lucido sulla situazione sociopolitica dei suoi tempi. Ma perché questo film può dirsi un capolavoro, nonostante sia pressoché sconosciuto nell’ambito del cinema Occidentale? Tentiamo di comprenderlo attraverso la recensione di La guerra dei mondi.
La recensione di La guerra dei mondi di Piotr Szulkin: perché il film polacco è un capolavoro
Quando Piotr Szulkin presentò in anteprima il suo film nel 1981, in Polonia era appena entrata in vigore la legge marziale; il primo atto che venne subìto dal film fu la censura, con un divieto di portare la pellicola nelle sale cinematografiche polacche per tre anni, fino al 1984, e con il licenziamento di quel ministro che aveva permesso la distribuzione del film anni dopo. Basterebbe questo preambolo a sottolineare la grandezza di un’opera qual è La guerra dei mondi di Piotr Szulkin, secondo capitolo della sua tetralogia della fantascienza che presenta anche i titoli di Golem, O-bi O-ba e Ga-Ga. Il cinema del regista polacco si esprime entro un terreno fortemente dittatoriale, tanto nell’atteggiamento censorio quanto nella manipolazione mediatica che tenta di essere raccontata all’interno di La guerra dei mondi, per cui è evidente che, prima di procedere con un’analisi strettamente legata all’opera, sia sempre necessario guardare innanzitutto al contesto in cui essa si esprime. Da Occidentali, che guardano al mondo dell’arte e del cinema con una certa considerazione che deriva dalla nostra storia, abbiamo cioè il dovere morale di comprendere che lavori di questo genere – come nel cinema iraniano di oggi, o come in tutte le tracce di arte che si esprimono nonostante il contesto politico contrario – rappresentano un estremo valore culturale, di riconquista degli spazi e di estrema consapevolezza sociale, che soltanto grandi menti possono riuscire a edificare.
Piotr Szulkin è evidentemente parte di questo micro-mondo e, servendosi a suo dire dell’estetica della fantascienza (e non della fantascienza propriamente detta) alla maniera di Sergei Tarkovskij, realizza opere che abbiano nell’indagine sociopolitica il loro punto nevralgico di interesse e di attenzione. La guerra dei mondi inizia con un’immagine esemplare nella filmografia del regista polacco, che dialoga con la natura del documentario e dell’animazione (due materie su cui si è formato) per ricercare gli eccessi e le caricature del governo del suo paese: un bambino porta a spasso un suo coetaneo, che accetta la condizione servile e, anzi, invita l’uomo che tenta di aiutarlo a decidere, poiché non c’è nessuno motivo di smettere con la pratica a cui si mostra disponibile. Il mondo raccontato, quello dominato da marziani che invadono la Terra e creano una nuova dittatura basata sulla raccolta di sangue volontaria degli individui, investe il protagonista, un giornalista indipendente che si veste di una parrucca per dare notizie e che vede la sua intera vita cambiare immediatamente, nel momento in cui gli stessi marziani gli distruggono casa e lo obbligano ad una serie di azioni che lo rendano il perfetto cittadino modello del nuovo mondo. Ma esistono davvero, i marziani, in questo film?
La grande invenzione di Szulkin è proprio questa: costruire un racconto costantemente ambiguo, che individua nella figura del nemico invasore un oggetto mai davvero definito e mutevole, esattamente come muta la risposta mediatica nei confronti dell’evento. I marziani, inquadrati come persone nane dipinte di grigio, potrebbero allora essere semplicemente degli esseri umani su cui è stato edificato un intero discorso per soggiogare la popolazione a compiere determinate azioni (donare il sangue, aggregarsi in centri di recupero, abbandonare posti di lavoro e residenze), salvo poi ritrattare e ritenere quello stesso soggetto – prima incensato e definito salvifico – in maniera differente, proponendo e prescrivendo piuttosto altre azioni per salvarsi da esso. In tutto ciò che Iron Idem, un uomo mostrato nel suo vagabondaggio e nella sua accondiscenza, che non gli migliora la vita ma che anzi lo porta a sprofondare in un abisso di perdizione da cui vorrebbe (fallendo) risollevarsi, parlando alla sua gente in uno dei monologhi più belli che siano mai stati ascoltati nella storia del cinema, grazie ad un’interpretazione magistrale di Roman Wilhelmi.

Oltre The Truman Show
C’è un film del 1998, il cui titolo è The Truman Show, che mostra la vita totalmente distorta dal mezzo mediatico di Truman, interpretato da Jim Carrey, e che si conclude con il suo abbandono del set cinematografico della sua esistenza fino a quel momento. Lo si cita non a caso, poiché appare francamente evidente l’influenza di questo film (e questo tipo di cinema) nella realizzazione di Peter Weir, e in tutte le opere che abbiano ragionato in questo modo sull’immagine e sul mezzo mediatico, sul senso della manipolazione del medium. Ogni immagine, compresa quella del processo di Iron Idem, della morte di un uomo, può essere oggetto di distorsione e di racconto proposto alla massa di spettatori, in maniera così tanto sublime da permettere una narrazione che sia in se stessa contraddittoria e antitetica, pur rimanendo funzionale.
Nel parlare di immagini, allora, non possiamo dimenticare l’essenza di quelle che figurano in questo film, che sì avvale della straordinaria fotografia dai colori bluastri e rossastri (un richiamo all’immagine convenzionalmente data dell’alieno, certo, ma anche un leitmotiv nella filmografia del regista) e che ragiona sul senso manipolatorio di ciò che si presenta sullo schermo. Accompagnata da quella reiterata presenza di musica elettronica e dalla fittizia band The Istant Glue, la morte di Iron Idem è allora solo un oggetto su schermo, un’ulteriore finzione manipolatoria, mentre il personaggio resta vivo e condannato all’esistenza, in un mondo che gli si apre dinnanzi con la nebbia che pervade il circostante. Esattamente come nel finale di The Truman Show, in cui l’oltre era una speranza ma anche un rischio: il cinema di Piotr Szulkin si configura allora come estremo anticipatore dei tempi nella sua capacità di raccontare il (suo) presente.