Numero 24 e la morsa claustrofobica della libertà nel nuovo film norvegese

A partire dal 1 gennaio 2025 è arrivato su Netflix un nuovo war movie norvegese, che racconta la storia di Gunnar Sønsteby: trattasi di Numero 24. Ma è un buon film da vedere?
Numero 24 e la morsa claustrofobica della libertà nel nuovo film norvegese (Recensione)

Articolo pubblicato il 5 Gennaio 2025 da Bruno Santini

Quello del war movie è un genere sempre molto utilizzato da parte di registi e addetti ai lavori, che se ne servono per veicolare messaggi di vario genere e per richiamare eventi storici realmente accaduti. L’ultimo, nella lista dei film che hanno trattato il tema della guerra e in particolar modo del nazismo e della seconda guerra mondiale, è Numero 24, un prodotto a metà tra il biografico e il prodotto di spionaggio che racconta la storia di Gunnar Sønsteby, pluridecorato eroe d guerra norvegese. Tra elementi tecnici interessanti e un racconto non sempre molto ben reso narrativamente parlando, qual è il risultato del film? Per comprenderlo, si procede prendendo in considerazione la trama e la recensione di Numero 24.

La trama di Numero 24: di che cosa parla il nuovo film norvegese su Netflix?

Per quanto attinga dalla storia vera di Gunnar Sønsteby, che può essere letta evidenziando il grande ruolo dell’uomo nel contesto della storia norvegese contemporanea, Numero 24 elabora un racconto non soltanto biografico, ma basato anche sul senso della libertà e sulla necessità di giungere ad essa a tutti i costi, spesso anche realizzando azioni immorali o delle quali non si può dire con certezza se ne sia valsa la pena. Il protagonista del film, ormai prossimo alla morte, si racconta nel corso di una conferenza con 400 studenti, rievocando la sua vita e le sue esperienze in ambito di spionaggio: il suo ruolo, nella resistenza norvegese tollerata (e coadiuvata) dal Re ha portato a scacciare i nazisti dalla Norvegia a seguito dell’occupazione del paese, per mezzo di azioni di disturbo, sabotaggi, uccisioni di nazisti e di possibili informatori, tra cui anche un suo caro amico.

La recensione di Numero 24: un racconto di pura claustrofobia, ma molto difettoso

Esiste una buona fetta di spettatori che sostiene come prodotti che ricalcano il tema della seconda guerra mondiale, del contrasto al nazismo e degli eroi di guerra siano ormai attempati e inutili, soprattutto considerando l’unica forma di narrazione possibile che viene prevista da questi prodotti stessi. I ragionamenti sull’effettiva utilità di un prodotto, però, non possono mai essere fini a se stessi ma devono sempre incontrare – da un lato – le necessità di un autore, e dall’altro le finalità dell’elemento narrativo o estetico che viene portato sullo schermo; ricalcare, senza alcuna innovazione tecnica o tematica, ciò che la storia racconta da decenni potrebbe non offrire molto al proprio prodotto, restituendo più l’idea di star facendo un qualcosa che verta verso il risultato sicuro. Ma esistono anche casi contrari, come il recente La Zona d’Interesse di Jonathan Glazer in cui il racconto di Rudolph Öss e della sua famiglia non è soltanto una rappresentazione dell’Olocausto, ma anche un modo per riflette sull’intero senso di storicità esistenziale dell’essere umano, costretto a vedere (e soprattutto sentire) tutto ciò che la storia non ha bisogno di dimenticare.

Numero 24, con John Andreas Anders dietro la macchina da presa, parte da un interrogativo che può ascriversi al campo dell’interesse e della necessità: quanto vale la libertà? Facciamo attenzione, sembra dirci il film, alla risposta: potrebbe non essere valida nel momento in cui la guerra la si combatte e la si vive giorno per giorno, quando cioè le sfumature si annullano e diventa tutto un bianco o nero, un vivo o morto, un alleato o nemico. Il Gunnar Sønsteby che viene portato sullo schermo, un uomo che viene considerato eroico all’interno del suo paese, è tutt’altro che un esempio angelico: è un uomo che ha ucciso e che rivendica la necessità di tutte le morti provocate, anche quelle in risposta ai delitti efferati da lui commessi. Un soldato a tutti gli effetti, che muove dall’interesse di sabotare la presenza nazista all’interno del suo paese e che finisce per adottarne la cinica logica di espulsionismo e condanna, per mezzo di quell’efferata violenza che – ad ascoltarlo – appare l’unica strada possibile. Lo si dice per chiarezza: non c’è nessuna volontà di giudicare tali parole (mediate dalla stessa citazione presentata all’inizio e alla fine del film, dunque auto-qualificanti), né quella di effettuare ragionamenti sulla morale che non appartengono al senso di questa recensione; tuttavia, nello schematismo e nella gerarchizzazione di quei passi che vengono condotti nell’ambito della vita dell’uomo, non c’è nulla di diverso rispetto al senso della banalità del male di harendtiana memoria, considerando semplicemente un oggetto di interesse che cambia (non gli ordini che arrivano da un superiore gerarca, ma una necessità che giunge da una volontà quasi predestinata di uccidere l’altro) e un senso differente dell’etica che cambia, del resto, così come cambia la storia e il suo cantore.

Trattandosi di un film che si pone come biografico, allora, è molto interessante notare che l’uomo sullo schermo (è davvero voluto?) non è mai idealizzato nella sua rappresentazione, ma anzi delegittimato in un mondo inevitabilmente diverso, che quella guerra non lo conosce se non per mezzo del filtro del racconto e che, dunque, non può davvero comprendere le sue ragioni. Anche sul piano tecnico, allora, il film trova una buona chiave di rappresentazione, muovendosi tra più piani temporali e utilizzando due differenti formati per rappresentare presente e passato, con il primo che riduce lo schermo in una porzione essenziale, claustrofobica, che soffoca tanto lo spettatore quanto i personaggi rappresentati. C’è però un utilizzo troppo poco marcato, e anche piuttosto schematico, di tale espediente che avrebbe potuto (e dovuto) essere la forza trainante della narrazione e dell’essenza del racconto, finendo però per essere un solo elemento marginale posto all’inizio e alla fine del film. Nei poco più di 100 minuti totali, che comunque hanno l’onere di condensare una storia molto complessa, si scelgono formalismi visivi e rappresentativi “facilotti”, che non tentano mai di mettere in discussione l’animo del racconto e che si traducono in una sequela di riprese poste l’una dopo l’altra – pur nell’elegante messa in scena fatta di abbondanza geometrica e di didascalie extradiegetiche che riprendono la forma del telegramma -, portando al termine il racconto. Persino la presenza dei Radiohead nella colonna sonora, di sicuro apprezzabile per la qualità della canzone scelta, è poca cosa rispetto a quelle potenzialità che il racconto avrebbe potuto tramutare in realtà, semplicemente osando un po’ di più: alla fine, quello di Numero 24 è un racconto onesto nella sua forma e nella sua essenza, che pone al centro un uomo e la sua storia, seguendo le (sue) regole e chiudendo il tutto con cenni storici che la teoria richiede. E volendo citare la studentessa che mette in discussione il modello di regole che Gunnar Sønsteby si è convinto di avere, chiediamo al film: ne è valsa davvero la pena?

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Numero 24
Numero 24

Focalizzando l'oggetto della propria attenzione sulla storia vera di Gunnar Sønsteby, Numero 24 racconta la vita dell'uomo e il suo contributo nel liberare la Norvegia dai nazisti nella seconda guerra mondiale.

Voto del redattore:

6 / 10

Data di rilascio:

01/01/2025

Regia:

John Andreas Andersen

Cast:

Sjur Vatne Brean, Erik Hivju, Lisa Loven Kongsli, August Wittgenstein, Philip Helgar

Genere:

Storico, drammatico

PRO

L’utilizzo del formato differente
La messa in discussione dell’uomo Gunnar Sønsteby, non incensato a tutti i costi nel film
L’alternanza tra i piani temporali…
… che però appare piuttosto fiacca in molti punti del film
Le scelte stilistiche e narrative appaiono piuttosto semplicistiche