Articolo pubblicato il 17 Dicembre 2024 da Gabriele Maccauro
Il Re Leone di Roger Allers e Rob Minkoff è considerato uno dei più importanti film d’animazione di tutti i tempi, per questo l’interesse di numerosi spettatori si è acceso quando la Disney ha annunciato un remake in live action diretto da Jon Favreau. Alla sua uscita nel 2019, l’opera è diventato uno dei film di maggior successo della storia del cinema al box office, tuttavia ha anche fortemente diviso la critica tra chi l’ha considerato un blockbuster realizzato magistralmente e chi invece ha fortemente contestato la mancanza di creatività. Dopo tutto questo tempo, come appare oggi Il Re Leone di Jon Favreau? In occasione dell’arrivo di Mufasa: Il Re Leone nelle sale, si prosegue con la recensione del remake Disney.
La trama del remake live action di Il Re Leone
Anche se è pubblicizzato come live action, va specificato che Il Re Leone di Jon Favreau è un remake realizzato completamente in CGI, con l’unica eccezione della prima inquadratura (quella dell’alba) che è stata realizzata dal vivo. Pur utilizzando un’impostazione fotorealistica, non sono state volte riprese su un set con attori in carne ed ossa, per questo l’intera operazione è da considerare un lungometraggio d’animazione, data l’impossibilità di addestrare animali veri per determinate scene. Essendo un remake, la trama è identica a quella dell’originale, la quale a sua volta era ispirata all’Amleto di William Shakespeare:
Simba è un piccolo leone, figlio del saggio Re Mufasa e di sua moglie Sarabi, il cui destino è quello di regnare, un giorno, al posto di suo padre. Di ciò non è contento Scar, il perfido fratello di Mufasa, che desidera fortemente diventare re della savana e per questo motivo è geloso di suo nipote Simba, il quale gli preclude la possibilità di salire al trono. Mentre quindi Simba continua a crescere attraverso gli insegnamenti di suo padre, Scar si allea con le iene, da sempre nemiche dei leoni, per preparare un complotto allo scopo di spodestare il re dal trono ed uccidere il futuro erede.

La recensione del remake live action di Il Re Leone
Il remake di Il Re Leone nasce da una tendenza della Disney di voler realizzare riadattamenti in live action dei loro stessi classici d’animazione che sono diventati grandi cult. Inutile dire che l’obiettivo è quello di puntare sui film più amati, quindi non sorprende che, prima dell’uscita di questo rifacimento in CGI, la Disney abbia optato per opere come La Bella Addormentata Nel Bosco, Cenerentola, Il Libro Della Giungla e Dumbo. Tuttavia i lungometraggi menzionati condividono una particolarità molto importante: il periodo di uscita che parte dagli anni 40 e non supera gli anni 60. Non si fraintenda, perché questi classici, nonostante siano molto vecchi, sono ancora oggi visti dalle nuove generazioni, perché uno degli elementi più importanti del cinema d’animazione è la possibilità di invecchiare molto più lentamente di qualsiasi altro live action girato. Tuttavia, se la tecnica spesso rimane sempre bella da vedere grazie all’artigianalità delle mani che ci hanno lavorato, non si può dire lo stesso della mentalità con cui sono stati concepiti all’epoca. Dumbo per esempio, uscito nel 1941, nonostante sia considerato un grande capolavoro del cinema da studiare, possiede degli elementi narrativi che oggi vanno per forza contestualizzati ed infatti nel remake di Tim Burton vengono aggiunti dei personaggi umani che possano espandere la storia rispetto ad un lungometraggio che dura 64 minuti, oppure ancora Cenerentola, uscito nel 1950, che presenta una protagonista il cui valore è legato esclusivamente alla simbologia delle sue azioni ed infatti nel remake di Kenneth Branagh vengono aggiunti dialoghi di approfondimento in salsa shakespeariana. Tuttavia con Il Re Leone il discorso è diverso, perché a differenza dei classici citati, questo film Disney è uscito nel 1994, quindi non solo il suo approccio narrativo risulta ancora moderno, ma deve anche tenere conto di numerosi spettatori che hanno vissuto il film in sala all’epoca del suo rilascio e che adesso vogliono sentirsi confortati dagli stessi elementi che hanno reso la loro esperienza indimenticabile, facendo conoscere l’opera ai loro figli sul grande schermo.
Se quindi è già difficile riuscire a realizzare il remake di un capolavoro immortale come Il Re Leone, ancora più difficile è soddisfare le esigenze di non esagerare troppo con le differenze narrative con i classici usciti nel Rinascimento Disney, un ragionamento che è stato applicato già con La Bella E La Bestia di Bill Condon (che ha sofferto molto di queste imposizioni) e Aladdin di Guy Ritchie (che è riuscito ad adattarsi meglio trovando il giusto compromesso). Jon Favreau, che entra in questa sfida dopo essersi già occupato dello straordinario Il Libro Della Giungla, decide essere il più fedele possibile al film d’animazione originale, tanto che la prima iconica sequenza con la canzone Il Cerchio Della Vita viene realizzata shot-for-shot (inquadrature identiche al film originale in ogni frame). Nel cinema esistono due esempi particolarmente eclatanti di remake shot-for-shot: il primo è Psycho di Gus Van Sant, il quale crea un film identico nelle inquadrature al capolavoro di Alfred Hitchcock per vedere se il pubblico vuole ancora le stesse cose e se un autore può riuscire davvero a copiare un maestro non tradendosi nemmeno nei dettagli più piccoli, e Funny Games di Michael Haneke, il quale 20 anni dopo rifà il suo stesso film cambiando solamente il cast per lanciare una provocazione su quanto l’americanizzazione di un’opera sia molto più vendibile rispetto ai lungometraggi provenienti dai mercati stranieri. Jon Favreau, che non utilizza le stesse inquadrature (fatta eccezione per sequenze come quella già citata) ma mantiene comunque un’estrema fedeltà al materiale originale, approfitta di questa idea per applicare anch’egli un approccio sperimentale. L’intenzione di Jon Favreau è infatti quella di ricreare scene iconiche, da tempo possibili soltanto grazie ai miracoli dell’animazione, come se avesse piazzato davanti alle telecamere dei veri leoni (o animali di qualsiasi altra specie) che recitano per il grande pubblico, tenendo conto di tutti i limiti del realismo della natura che, nei movimenti, non devono mai essere superati. Il discorso metacinematografico di Jon Favreau è proprio quello di mostrare le differenze impassibili tra il cinema live action e quello d’animazione e di come la settima arte, in un’epoca post moderna in cui le nuove tecniche visive sono senza confini, sia capace di ricreare tutto, compreso un film formato solo da animali parlanti e senza persone in carne ed ossa.

La ricerca del realismo massimo si nota in numerose sequenze che risultano visivamente potenti e ricercate, come il topolino che raggiunge la Rupe Dei Re, al quale viene dedicato molto spazio mostrando tutto il suo percorso prima di recarsi nella roccia con i leoni (e nella quale esce lo splendido volto di Scar dall’oscurità del suo angolo, rappresentando l’imposizione del più forte e creando un parallelismo tra il roditore e la sua figura messa da parte), dando per un attimo l’idea di star guardando un documentario nella Savana. Un altro momento in cui il discorso del cambiamento delle due tecniche prende forma è per esempio la struggente sequenza in cui Simba, alla vista del cadavere del padre, si stende tra le sue zampe e cerca di addormentarsi, proprio è stato visto fare ad alcuni cuccioli che hanno trovato i corpi dei loro genitori uccisi dai predatori. Jon Favreau non rinuncia a questa idea nemmeno quando il remake dovrebbe andare sul lato più spirituale: infatti l’essenza dell’anima di Simba colta da Rafiki nel film diviene un ciuffo di pelo che viene trasportato dal vento incontrando numerosi animali, arrivando addirittura ad essere masticato per sbaglio da una giraffa, dei quali escrementi vengono trasportati da uno scarabeo finché un insetto più piccolo non distingue i peli rimanenti per riportarli involontariamente alla scimmia. La lunga sequenza è un bellissimo modo per riaffermare l’essenza del Cerchio Della Vita in cui tutti, volenti o nolenti, fanno parte di un disegno più grande con ogni piccola vita che influenza l’altra. La sequenza più impressionante è il momento in cui Mufasa parla dall’Aldilà, perché se nel cartone il suo spirito si manifesta con la sua possente figura al centro del cielo come un fantasma della Forza, nel live action c’è soltanto la sua voce con i fulmini che, in mezzo alle nuvole, formano il suo volto da leone quando appaiono i lampi ogni pochi secondi. La scena fa quasi venire il dubbio che sia stato Simba stesso ad essersi immaginato suo padre, con un’ambiguità inedita inserita proprio perché nel contesto della natura, al di là della storia umana, il lato spirituale apparirebbe troppo surreale.
Il fotorealismo è sublime, perché gli effetti visivi sono talmente perfetti che se è impossibile distinguere la CGI dagli animali veri anche nei primissimi piani e l’Oscar mancato a causa della vittoria di 1917 diretto da Sam Mendes oggi potrebbe gridare vendetta. Ma al di là dei paragoni con il film d’animazione originale, non mancano anche soluzioni originali che mozzano il fiato, come la cinepresa attaccata ai volti degli animali mentre corrono, facendo percepire il tocco delle piante con grande dinamismo. Eccezionale un momento musicale in cui la comunità dell’Oasi canticchia Il Leone Si È Addormentato insieme a Timon e Pumba finché Nala, nella stessa inquadratura, sbuca dalle piante assalendoli grazie all’utilizzo di un jumpscare, mostrando la prepotenza della natura che interrompe la routine degli erbivori in una scena d’azione attraverso la quale si dà un senso fisico al concetto di “rottura del ritmo“. I combattimenti sono eccellenti e, nonostante l’assenza delle gocce di sangue dovuta al parental control, si sente la ferocia dei colpi e le zanne che affondano sulla pelle dell’avversario, in coerenza con le splendide sequenze action viste già in Il Libro Della Giungla. Non si può dire nulla nemmeno ai campi lunghi che fanno immergere completamente nella Savana, tra cui una lunga incredibile inquadratura in cui Mufasa parla a suo figlio Simba, nella quale la fotografia cambia lentamente perché il sole sta calando per dare spazio alla notte. Ogni frame espresso emana calore e natura allo stato puro, confermando ancora una volta quanto Jon Favreau sia uno dei più importanti creatori di mondi nel cinema contemporaneo. Da lodare i riarrangiamenti di Hans Zimmer che decide di riportare la sua iconica colonna sonora composta negli anni 90 senza risultare ripetitivo, mentre il cast vocale è perfetto sia in originale che in italiano (con l’eccezione delle voci di Marco Mengoni ed Elisa che risultano goffe in determinati dialoghi).

Il problema del remake live action Disney di Il Re Leone
Nonostante le cose estremamente interessanti che mostrano la monumentale tecnica di Jon Favreau, quest’ultimo pecca dell’eccessiva fedeltà dedita al suo esperimento. Spesso si dice che gli animali, in quanto tali, abbiano mancanza di espressività perché la loro mimica facciale impedisce libertà di movimento, anche se i mammiferi variano questo particolare in base a diversi casi. Per questo motivo, per rendere il film il più reale possibile, l’autore ha chiesto che i volti degli animali si muovessero il meno possibile. In alcuni momenti si può notare che si è cercato di fare un lavoro maniacale sulle microespressioni degli animali attraverso espedienti come il ringhio o i movimenti delle zampe (i personaggi più riusciti su questo lato sono le iene e Timon), ma spesso si avverte uno straniante senso di staticità. Purtroppo le parti in cui la cosa risulta più debole sono proprio quelle che spesso ricalcano in modo più fedele le sequenze del film d’animazione originale: è impossibile non pensare al volto pieno di terrore di Simba quando vede la carica degli Gnu nel film precedente quando qui viene mostrato un primo piano un leoncino che rimane completamente impassibile a causa dei limiti imposti da Favreau. I lati peggiori però sono le sequenze musicali, con momenti come Timon e Pumba che ballano tra le liane che qui sono sostituiti con il duo che canta con Simba… camminando e basta, creando un contrasto stucchevole. L’unica eccezione è la creativa sequenza di Voglio Diventar Presto Un Re con Simba e Nala che si mimetizzano tra le altre specie, così come sono meno stranianti le sequenze in cui le voci delle canzoni sono fuori campo. Nonostante l’esperimento interessante, queste problematiche danno spesso l’impressione di guardare un restauro in 4K del film d’animazione ma con determinate sequenze che vengono depotenziate. Inoltre l’espressività presente in Il Libro Della Giungla, in cui gli animali erano perfettamente realistici pur avendo volti molto più maleabili, fa capire che non c’era bisogno di andare su un lato così estremo per garantire il massimo spettacolo, anche se si comprende che per un autore il gusto della sfida di inventare nuovi assi nella manica rispetto ai precedenti lavori possa essere allettante.
Un altro problema è la quasi totale mancanza di coraggio nel cambiare la storia originale, cosa che fa venire meno l’effetto novità dato che Il Re Leone di Roger Allers e Rob Minkoff risulta ancora tanto contemporaneo. Ci sono dei momenti in cui Jon Favreau inserisce dei dialoghi per aumentare l’approfondimento dei personaggi, come il discorso di Timon e Pumbaa sulla linea retta in contrasto con il Cerchio della Vita, oppure Shenzi che è una leader rispetto alle altre iene o ancora Simba che ricorda a Scar che un giorno lo comanderà. Tutte aggiunte simpatiche inserite con furbizia per dimostare che un minimo tassello può cambiare tanto… finché non arriva una scena completamente inedita (ed ispirata al musical di Broadway) in cui Scar vuole costringere Sarabi a stare a suo fianco mentre Nala cerca di fuggire dalla Rupe Dei Re senza farsi scoprire attraverso una sequenza ricca di tensione. Questa scena, gestita con una grande maestria, fa desiderare una maggiore varietà che però non arriva mai e le piccole aggiunte sembrano soltanto un leggero antipasto per accontentare chi desidera un remake più fresco (cosa non stupida, dal momento che il già citato Aladdin di Guy Ritchie ha dimostrato che si può tranquillamente equilibrare novità e tradizione). Perché, per esempio, non inserire nel racconto i leoni fedeli a Scar che poi compariranno in Il Re Leone 2, considerato da molti il miglior sequel direct to video di sempre della Disney (e che verrà ripreso, dato che in Mufasa: Il Re Leone appare la piccola Kiara)? Al di là di tutto, non si può dire nulla né alla storia e né all’approfondimento dei personaggi, i quali sono rappresentati in modo sublime. Scar infatti continua ad essere uno straordinario villain subdolo e dittatoriale e Simba continua ad essere una delle più importanti rappresentazioni delle nuove generazioni che sentono il peso della propria eredità, così come ci sono scene divertenti e commoventi… ma spesso si ha l’impressione che questa grandezza sia dovuta unicamente alle scelte narrative del classico Disney originale piuttosto che al lavoro di scrittura di Jeff Nathanson (sceneggiatore del film).

Il remake di Il Re Leone di Jon Favreau rimane un esperimento interessante perché la sua esistenza rappresenta, negli intenti, l’eterno conflitto concettuale tra il cinema d’animazione ed il cinema live action. Non può essere definito un brutto film, non solo per la straordinaria ricostruzione visiva, ma anche per il materiale originale da cui attinge che è troppo potente per essere ignorato. Tuttavia proprio questa sua attinenza eccessiva, unita al cortocircuito scaturito dalla ricerca ossessiva nei confronti del realismo, rende questo esperimento unico, ma anche profondamente imperfetto.