Articolo pubblicato il 9 Dicembre 2024 da Bruno Santini
Con il suo consueto appuntamento settimanale, Dune: Prophecy giunge al quarto episodio, avvicinandosi così sempre più alla fine della serie televisiva con produzione HBO, che porta sullo schermo il ciclo di Legends of Dune che è stato oggetto della realizzazione da parte di Brian Herbert e Kevin J. Anderson. Dopo aver osservato il terzo episodio ricco di numerosi spunti di riflessione, è ora di volgere lo sguardo a Nato due volte, episodio 1×04 di Dune: Prophecy che permette di ritrovare la narrazione lineare della serie. Ma con quale risultato? Di seguito, si indica la trama e la recensione del quarto episodio di Dune: Prophecy.
La trama di Dune: Prophecy 1×04, Nato due volte
Come sempre, prima di procedere con la recensione del quarto episodio di Dune: Prophecy, è importante considerare innanzitutto la trama di quest’ultimo, soprattutto considerata la grandissima mole di elementi presenti al suo interno. Come osservato nel finale del precedente episodio, Tula Harkonnen tenta di revitalizzare Lila servendosi di Anirul, la macchina pensante che l’ordine delle Bene Gesserit segretamente conserva nonostante il divieto di servirsene nell’Impero; intanto, si prepara la ribellione degli Atreides ai danni dell’Imperatore, che mira ad essere colpito in occasione dell’ultimo giorno di Landsraad. Quest’ultimo estende il suo invito anche ad Harrow, il nipote di Valya Harkonnen che, grazie ad una serie di voci fatte circolare velocemente, accusa l’Imperatore di aver assassinato Pruwet Richese. La situazione vede una compresenza nella scena di tutti i principali personaggi della serie, tra cui spicca soprattutto Desmond Hart, che decide di giustiziare – sotto consiglio dell’Imperatore Javicco Corrino – tutti coloro che avevano parte alla ribellione, meno che Keiran Atreides. Alla fine dell’episodio, ci sono alcuni elementi che portano a porsi domande sul futuro della serie.
La recensione del quarto episodio di Dune: Prophecy
L’inizio della serie di Dune: Prophecy, che aveva come aspettativa quella di portare sullo schermo i libri scritti da Brian Herbert e Kevin J. Anderson, non era stato assolutamente convincente, in virtù di motivi che affondavano le proprie radici in una scrittura a parte debole e in parte destinata a scimmiottare quanto osservato nelle dinamiche di potere e corruzione per le quali è diventato celebre Il Trono di Spade; d’altro canto, però, puntare il dito è e dev’essere anche un atto autoriferito e chi scrive, liberatosi di quello scetticismo derivante soprattutto dalla materia letteraria su cui Dune: Prophecy poggia le sue basi, non può far altro che notare un miglioramento sotto tutti i punti di vista per la serie presente su Sky e NOW TV. Probabilmente, la strada giusta è stata trovata nel rinunciare al tentativo di frammentare la narrazione, esponendola a piani temporali e spaziali distanti e differenti tra loro, condensando – ma, com’è giusto che sia, c’è bisogno di tempo per arrivarci – entro un unico ideale palco il teatro dell’intero racconto della miniserie. Sfruttando il pretesto del racconto storico delle due sorelle, Valya e Tula Harkonnen, è stato possibile porre in auge il destino di una famiglia di cui si è a lungo raccontato nei libri scritti da Frank Herbert e che ha sempre affascinato per le profonde ragioni del suo violento meccanismo di potere.
Allo stesso tempo, il quarto episodio permette di approfondire tutte quelle macchinazioni imperiali che non ci si può non attendere da una serie che tratta visceralmente il tema geopolitico, non tanto affidandosi a intrighi e corruzioni personali (era questo il limite principale del secondo episodio, forse), ma a profondi sistemi globalizzanti, che coinvolgono case e piani. L’apertura di Dune: Prophecy diventa allora anche tecnica, con campi lunghi e con ampie sequenze che permettono di rappresentare la folta platea del Landsraad in cui, come nei migliori teatri di posa, si destreggiano tutte le principali figure della serie televisiva, a partire da Desmond Hart e fino a Keiran Atreides. Certo, si è lontani da una perfezione nella resa complessiva dell’intero episodio – soprattutto in aspetti che spesso appaiono fin troppo dozzinali nella propria rappresentazione – ma Nato due volte è una puntata certamente spettacolare nel senso più puro del termine, che riesce nel suo estremo tentativo di caratterizzare ed espandere il complesso mondo di Dune, fossilizzando al contempo i rapporti tra i personaggi e sublimando la figura del villain di turno: proprio quella di Travis Fimmel – nonostante un’interpretazione non sempre gradevole al 100%, considerando anche i consueti eccessi che sembrano quasi essere fini a se stessi e caricaturali nella loro resa – è una presenza determinante nella serie, oltre che in grado di fornire il collante tra la causa politica e la dottrina religiosa imperante nel contesto generale di Dune.
Dall’altra parte ci sono le Bene Gesserit, il cui credo dogmatico incontra anche il fallimento e l’intrigo, con la figura di Tula Harkonnen che sembra quasi voler scalzare quella di sua sorella Valya, colta com’è tra il suo essere un Abominio e quella bontà di cuore che risulta essere, del resto, anche una volontà di potenza. L’ambiguità morale del racconto tutto, con interpretazioni mai banali e con un senso della scena sempre vorticoso e pronto a essere stravolto (per quanto il colpo di scena non sia, e non voglia essere, l’elemento fondante di Dune: Prophecy), permette alla serie televisiva di assumere un dinamismo necessario, pur con un racconto che – in fondo – porta sulla scena complesse e profonde scissioni politiche, sociali e ideologiche: in un momento storico di questo genere, allora, Dune: Prophecy diventa addirittura una serie determinante per il modo in cui la violenza, la pretesa di potere e l’assecondare l’altro appaiano come fattori della nostra contemporaneità. Il tutto, ovviamente, con il ben noto senso del finale con cliffhanger, che rimanda agli ultimi due episodi da cui ci si aspetta di tutto.