La recensione di Napoli – New York, il nuovo film diretto dal regista premio Oscar Gabriele Salvatores e tratto da un soggetto di Federico Fellini. Con protagonisti i giovani Dea Lanzaro ed Antonio Guerra e con il veterano Pierfrancesco Favino – che tornerà su grande schermo dal prossimo 1 gennaio con Maria, il Biopic di Pablo Larraìn presentato a Venezia81 con Angelina Jolie nei panni di Maria Callas – l’opera arriva nelle sale italiane a partire dal 21 novembre con la curiosità e l’interesse di pubblico e critica. A seguire, trama e recensione di Napoli – New York.
La trama di Napoli – New York, da un soggetto di Federico Fellini
Prima di passare alla consueta analisi e recensione del film, è bene spendere due parole sulla trama di Napoli – New York, il nuovo film del premio Oscar Gabriele Salvatores con Pierfrancesco Favino e tratto da un soggetto di Federico Fellini. Ambientato nella Napoli del 1949, il film segue le vicende di Celestina, una bambina povera la cui casa è stata distrutta dai bombardamenti, portandole via quel poco che aveva. L’unica persona di cui si fida è Carmine, con cui inizierà a cercare il modo di tirare avanti. Un giorno però, un marinaio americano che si sta imbarcando per New York, chiede a Carmine di aiutarlo a vendere un cucciolo di giaguaro promettendogli una ricca ricompensa. Ma quando l’uomo parte senza pagarlo, egli lo segue fino alla sua nave e Celestina, invece che aspettare il suo ritorno, sale insieme a lui, per poter scappare da Napoli ed arrivare a New York, dove si trova sua sorella Agnese, unica persona che le è rimasta. Ma non tutto sarà così semplice.
La recensione di Napoli – New York, diretto da Gabriele Salvatores
Parliamoci chiaramente: dopo tanti anni di difficoltà e passi falsi, c’era finalmente grande interesse dietro un nuovo progetto di Gabriele Salvatores. D’altronde, Napoli – New York nasce a partire da un soggetto scritto da Federico Fellini e Tullio Pinelli e, nel bene o nel male, questo sarebbe stato di certo un fattore centrale del nuovo lavoro del premio Oscar e nella ricezione critica dello stesso. Come da lui stesso affermato, egli è rimasto fedele al lavoro dei due quanto più possibile – movimenti di camera compresi, che si adattassero alla statura dei bambini protagonisti – mentre ha dovuto mettere mano in special modo sul finale, che era stato solamente abbozzato. E ci stavano e stavamo credendo tutti, perché il film inizia col piglio giusto e tutta la parte ambientata sulla nave scorre in maniera piacevole, senza particolari guizzi creativi sì, ma dando l’idea che a dirigere il film ci fosse un Salvatores che avesse finalmente ritrovato la forza di farsi sentire, di dimostrare che la voglia di regalare qualcosa al mondo della settima arte ancora ci fosse. Eppure, una volta aver messo piede su suolo americano, il film si perde, come i piccoli Carmine e Celestina.
Dispiace ed irrita constatare che Napoli – New York non è altro che il solito film italiano, fin troppo italiano, come direbbe Stanis La Rochelle (quanto manca). I soliti costumi, la struttura di un film tv da prima serata su RAI 1, gli ammiccamenti a L’amica Geniale e C’era una volta in America ed un terzo atto buonista in maniera sconsiderata, che rovina tutto ciò che di buono era stato fatto fino a quel momento. A preoccupare è però la sensazione che si sia davvero pensato che tutte le sequenze in tribunale, le parole messe in bocca ai bambini, i ragionamenti degli adulti, fossero un qualcosa che potesse ringiovanire una pellicola nata da un soggetto datato, quando il risultato è stato esattamente l’opposto: a risultare fresca è stata proprio la prima parte, quella che riprende Fellini e Pinelli, mentre la seconda è caduta rovinosamente nel cercare di apparire moderna. E quando si tenta in tutti i modi di essere qualcosa che non si è, lo spettatore se ne rende immediatamente conto ed il fallimento è inevitabile.
Ed è un peccato enorme, perché il ritorno di Salvatores nella sua Napoli doveva e poteva essere di più. Se gli Stati Uniti rappresentano la speranza dei protagonisti, per il premio Oscar non sono altro che una sciagura, perché è proprio Napoli a regalare le uniche gioie di questa pellicola, che riavvicina il regista alle proprie radici – anche e soprattutto cinematografiche – con una direzione dei giovani Carmine e Celestina che ricorda quella dei non professionisti neorealisti, da De Sica a Rossellini, quest’ultimo non a caso citato con una proiezione di Paisà. Per quanto sia stata ritratta anche piuttosto bene la condizione dei migranti, l’arrivo in America fa perdere la bussola al regista, che inizia a destreggiarsi tra scelte stilistiche discutibili, canzoni che sovrastano e distolgono l’attenzione dalle grida d’aiuto dei giovani, la cui Odissea finisce per lasciare spazio, come detto, ad un epilogo che vorrebbe rendere felici tutti, senza però riuscirci.