Sulla piattaforma di streaming Netflix ha fatto il suo esordio una nuova miniserie ideata da Michael Schur, dal titolo A Man on the Inside. Con la struttura di una sitcom in termini di durate dei singoli episodi (che non superano i 30 minuti di durata considerando anche i titoli di coda) e con una serie di attori che gravitano da tempo nell’universo Netflix, A Man on the Inside tenta di riflettere – per mezzo della comicità offerta – sul mondo della vecchiaia e della solitudine, per mezzo di un istituto futuristico in cui il concetto di casa di riposo si trasforma in un qualcosa di estremamente lussuoso. Ma con quale risultato? Per comprenderlo, si indica di seguito tutto sulla trama e sulla recensione di A Man on the Inside.
La trama di A Man on the Inside: di che parla la nuova miniserie Netflix con Ted Danson?
Prima di procedere con la recensione di A Man on the Inside, è importante sottolineare innanzitutto quale sia la trama della miniserie in questione, che vede nel suo cast non soltanto Ted Danson, ma anche altri volti noti nell’universo Netflix e non solo, come Stephanie Beatriz (nota per il suo ruolo in Brooklyn Nine-Nine) e Stephen McKinley. Il racconto è quello di Charles, un uomo che vive in maniera abitudinaria e noiosa fin dal momento in cui sua moglie Victoria, gravemente malata di Alzheimer, muore. Sua figlia, preoccupata per lui, lo invoglia a cercare un hobby per riempire le sue giornate, e così Charles fa: leggendo l’annuncio di un giornale che fa riferimento ad una persona anziana che sia dotata di cellulare, Charles si candida come spia per un lavoro che deve essere effettuato da Julie, detective privato che deve investigare su una collana rubata in un prestigioso istituto che funziona da casa di riposo per persone più anziane. Integrandosi all’interno della struttura, Charles scoprirà un mondo che non poteva minimamente immaginare.
La recensione di A Man on the Inside: famiglia, vecchiaia e ben poche risate
Poco meno di 30 minuti per episodio e una trama lineare che avanza molto lentamente, lasciando il passo a numerose situazioni di quotidianità che si susseguono nel corso degli episodi: il genere della sitcom ha contribuito a generare un grande cambiamento nella storia della televisione e sono tantissimi i titoli che, adagiandosi su questa struttura, hanno regalato tanto agli spettatori nel corso degli anni. A Man on the Inside, anche per numero totale di episodi di questa (per ora unica) stagione non può certamente tentare di avvicinarsi ai titoli che tutti abbiamo in mente, ma condivide non soltanto parte di quell’ossatura – l’attrice Stephanie Beatriz, nota per essere stata la Rosa Diaz di Brooklyn Nine-Nine – ma anche l’aspirazione generale a raccontare un contesto molto più serio di quanto le premesse non promettano. Facendo dichiaratamente riferimento (nonostante il contesto statunitense rievocato in molta geografia da cartolina e in numerosi passaggi della miniserie) ad un british humour incarnato dal protagonista Ted Danson, A Man on the Inside sfrutta il tema della spia e dell’investigazione, due elementi cardine della politica del servizio di streaming, per indagare su un qualcosa che – a dire il vero – non ottiene un pregevole trattamento sullo schermo: persone anziane, solitudine, case di riposo, complessi rapporti genitoriali con la vecchiaia, gambe che faticano a muoversi correttamente e tanto altro di vicino a questa macroarea.
C’è un quid sicuramente interessante, in tutto questo: nell’osservare A Man on the Inside si rievoca un certo tipo di nostalgia (vera o finta che sia) verso genitori e nonni, con il tema della genitorialità difficile che viene accompagnato a quella voglia di vivere ad ogni costo, pur contrastando quelle difficoltà dell’esistenza che si acuiscono con la terza e ultima fase della propria vita. Pur in un complesso appannamento generale, allora, sembra proprio di ascoltare il respiro pesante di chi sa che anche sospirare non è più un qualcosa di immediato, così come appaiono certamente ben rese le metaforiche ginocchia scricchiolanti di persone il cui vero problema, in fin dei conti, risiede nella solitudine. Certo è che, però, ben presto A Man on the Inside trasforma un racconto di caratterizzazioni in un complesso mondo di stereotipi, affidando ad ogni personaggio una piccola porzione di realtà possibile: dal maschilismo di un uomo burbero fino alla voglia di sesso costante di un’anziana signora in preda a voglia tardive, passando poi per tanti altri caratteri mai del tutto sfumati nella loro essenza. Si comprende come, in quella grondante esagerazione di topoi (poiché c’è spazio anche per il lavoro frustrante, per figli che non ascoltano i genitori e per tanti discorsi, semplicistici, sul denaro), ci sia voglia di restituire allo spettatore una buona dose di sentimenti. E, a dire il vero, chi guarda non se ne sente privo, dal momento che la serie fa sua una buona capacità di gestire il ritmo e i momenti più emotivi, soprattutto quando parla di morte – e se si parla di vecchiaia, appare quasi una formalità – e di malattia; purtroppo, però, non si riesce mai davvero a controbilanciare con la componente comedy di cui una sitcom dovrebbe essere comprensiva.
Quello dell’assenza di un vero umorismo funzionale, in effetti, non è un problema da poco, per una serie di questo genere: al netto di buone interpretazioni di alcuni, su tutte quella di Stephen McKinley, ci si ritrova in un contesto generale di fin troppa sufficienza soprattutto nel comparto ironico, che tenta di avvicinarsi ad un raffazzonato tentativo di british humour (con il rimando al concetto di spia-007) per cui il Ted Danson non presenta di certo l’accurata silhouette. Anche quando si vorrebbe ironizzare sull’anzianità, con momenti tendenti allo slapstick, si ottiene un effetto tutt’altro che riuscito, con l’ironia che viene meno anche in tutte quelle linee di dialogo che – nelle intenzioni – dovrebbero offrire decisamente qualcosa di più. Se A Man on the Inside avesse avuto, fin da subito, un’idea completamente differente di struttura e di comunicazione emotiva, probabilmente il risultato sarebbe stato di gran lunga migliore: posta com’è e nei suoi evidenti limiti, la miniserie soffre tantissimo lungo i suoi 8 episodi risultando parte di quel marasma generale di prodotti che tentano di piacere a tutti i costi.