La recensione di Grand Tour, il nuovo lungometraggio del regista portoghese Miguel Gomes, presentato in anteprima all’interno del concorso ufficiale della 77esima edizione del Festival di Cannes, dove la giuria presieduta da Greta Gerwig ha deciso di assegnargli il prestigioso Prix de la Mise en Scène per la miglior regia. Il film arriva nelle sale italiane grazie a Lucky Red dal 5 dicembre. A seguire, trama e recensione del film.
La trama di Grand Tour, presentato in concorso al Festival di Cannes 2024
Prima di passare alla consueta analisi e recensione del film, è bene spendere due parole riguardo la trama del nuovo lungometraggio di Miguel Gomes, pellicola che è valsa al regista portoghese il Prix de la Mise en Scène per la miglior regia a Cannes77. Grand Tour segue le vicende del funzionario dell’Impero britannico di Edward (Gonçalo Waddington) ed il viaggio che egli intraprende nel 1917 e che lo porta dalla Birmania alla Cina. Funzionario dell’Impero britannico, egli decide di mollare tutto a ridosso del matrimonio con Molly (Crista Alfaiate) e di scappare. Egli intraprende dunque un percorso che lo porterà (e costringerà) a riflettere su se stesso, trasformandosi dunque in un viaggio tanto fisico quanto emotivo. Allo stesso tempo, lei non si arrende e, a sua insaputa, decide di mettersi sulle sue tracce.
La recensione di Grand Tour, diretto da Miguel Gomes
Una storia d’amore ed un matrimonio che non s’ha da fare. Da Tabù (2012) a Le Mille e una Notte – Arabian Nights (2015), il cinema di Miguel Gomes è sempre stato caratterizzato dal concetto di fuga, dallo scappare lontano, come fa Edward con Molly poco prima di sposarla, intraprendendo un Grand Tour – citando Il Gentiluomo in Salotto di William Somerset Maugham – che lo porta in Birmania, Thailandia, Filippine, Vietnam ed infine Giappone. Fuga dalle proprie responsabilità, fuga da se stessi, ma anche fuga dal modo in cui si fa cinema oggi. Gomes cerca un’altra via, un’alternativa, mescola generi e tecniche, realtà e finzione, ambienta la sua opera nel 1917 ma la riempie di anacronismi, di elementi che spiazzano lo spettatore. Per quanto la forma di Grand Tour sia il suo punto di forza e meriti un approfondimento, è però nella sostanza che l’opera si sgonfia, rivelandone ogni difetto.
Vi è quindi poco da recriminare alla giuria capitanata da Greta Gerwig per avergli consegnato il Prix de la Mise en Scène per la miglior regia a Cannes77, ma Grand Tour resta più materiale d’analisi cinematografica che una pellicola che cerchi di unire gli spettatori, finendo per mettere in fuga anche loro. Non che ogni lungometraggio debba essere ideato per la massa, questo non è di certo un difetto, ma dietro lo studio di Gomes si trova ben poco ed il risultato finale non è altro che un polpettone dalla durata eccessiva e che, semplicemente, resta indigesto. Importante non significa infatti bello e, per quanto Grand Tour possa contare su una tecnica sopraffina – in particolar modo sulla straordinaria fotografia di Rui Poças, Sayombhu Mukdeeprom e Gui Liang – annoia terribilmente.
Per quanto sia importante analizzare un’opera in tutti i suoi aspetti, scavando in profondità e teorizzando sul suo ruolo ed impatto nella storia del cinema, non può non esserci anche un commento di pancia, che segua altre logiche, che vada nella direzione di ciò che dice il cuore e non la testa, che spieghi ciò che si è provato nel buio di una sala e non quello che si è studiato a casa, a mente fredda. Grand Tour è un’opera che non convince, forse il perfetto esempio di film festivaliero – e, ancor più, da Festival di Cannes – che merita sì di trovarsi in concorso ma che viene sovrastimato e dimenticato fin troppo in fretta, con cui Miguel Gomes tenta di creare un nuovo modo di gestire tempi e spazi cinematografici, fallendo. Ecco dunque che la fuga precedentemente citata diventa anche quella dello stesso regista, che si allontana sì dalla formalità stilistica, ma anche dallo spettatore, ovvero quello che dovrebbe essere l’unico vero obiettivo del suo lavoro, perché il cinema deve sempre e solamente unire, mai dividere e non c’entra nulla la regia atipica che abbraccia il documentario, il bianco e nero o il minutaggio, non è mai “cosa” ma “come” ed è in questo, solo in questo, che Gomes ha inciampato.