Tendaberry è un film drammatico e sentimentale del 2024, diretto da Haley Elizabeth Anderson e presentato in anteprima in Italia al concorso del Torino Film Festival 2024. Si tratta di un lungometraggio statunitense parecchio atteso per la tematica e per il modo in cui viene proposta dalla regista, ma ha effettivamente soddisfatto le aspettative? Di seguito la trama e la recensione di Tendaberry.
Di cosa parla Tendaberry? La trama del film di Haley Elizabeth Anderson
Film in concorso al TFF 2024, Tendaberry è stato uno dei titoli più attesi tra i 16 lungometraggi selezionati: ma di cosa parla l’opera di Haley Elizabeth Anderson? Di seguito la trama così come riportata sul sito ufficiale del Torino Film Festival 2024:
“Mentre il suo fidanzato Yuri torna in Ucraina per assistere il padre malato, Dakota si trova ad affrontare la precarietà della vita a New York. Quando Yuri scompare, la giovane scopre di essere incinta e deve decidere se aggrapparsi al passato o costruire il proprio futuro. Compreso nell’arco di quattro stagioni, un racconto capace di offrire un potente spaccato della vita urbana e una meditazione sull’ansia e sull’incertezza delle nuove generazioni.”
La recensione di Tendaberry: un inno alla libertà veicolato in maniera mediocre
A dispetto dei nobili intenti della giovane regista Haley Elizabeth Anderson, qui al suo esordio dietro la macchina da presa, Tendaberry è un film dalla struttura priva di forma. Il grosso difetto di quest’opera prima subentra dopo una parte introduttiva assolutamente interessante, dove chi osserva viene catapultato nella quotidianità della protagonista e del suo fidanzato. Quando il partner esce di scena poiché moralmente obbligato a rientrare in Ucraina così da prendersi cura del padre malato, anche Dakota, e di conseguenza Kota Johan, è come se venissero oscurate: il personaggio e l’interpretazione dell’attrice risentono della ripetitività di scene come il girovagare in ambienti socialmente marci. Infatti, dal blocco centrale in poi Tendaberry diventa poco coinvolgente a causa della banalità delle scelte narrative, e l’autenticità dei sentimenti caratterizzante la prima parte si perde in maniera grossolana.
Ciò che di buono era stato costruito nella fase iniziale, persino le intuizioni estetiche, è andato perduto progressivamente, e non per via dell’atmosfera malinconica, ma per come si è deciso di metterla in scena. La divisione in stagioni non assume connotati specifici, né emotivamente né cromaticamente, e l’essere circondata da personaggi negativi sempre pronti a fare del male diventa un fattore ridondante, non molto credibile per giunta. Gli eventi prendono una piega sempre avversa alla protagonista, ma i due punti chiave avvengono fuori campo limitando le potenzialità sentimentali del film e togliendo forza all’attrice, la quale non ha avuto modo di esprimersi al meglio mostrando le reazioni del suo personaggio di fronte determinati cambiamenti. Il racconto viene edulcorato senza una particolare ragione a riprova delle (in)evitabili ingenuità di questo esordio.
In Tendaberry, inoltre, vengono inspiegabilmente isolati i legami tra Dakota ed i personaggi secondari, e si lascia in background persino la fondamentale relazione con Yuri. Una discontinuità del genere dimostra quanto l’opera prima in questione sia acerba, specie se si parla di profondità narrativa. Il finale è la prova del nove, poiché il “drammone” costruito in precedenza viene risolto positivamente con uno snodo di trama tardivo e semplificatorio (il subentro della comunità dominicana di Brooklyn), al pari dei peggiori deus ex machina, e per giunta è seguito da una sequenza di montaggio che è sul livello di un qualunque progetto audiovisivo universitario. Ecco che i continui riferimenti alla contemporaneità e l’impiego del materiale d’archivio, sparso per tutto il film, assumono dei significati ben precisi nel finale di Tendaberry, quando la voce fuori campo di Dakota mette in chiaro qual è il messaggio: nonostante il passato bisogna andare avanti, muoversi, volare (simbolo mostrato in maniera accademica) e vivere il presente. Nonostante l’apparente intensità data dalle immagini, dai suoni e dal voice over, che comunque dimostrano le potenzialità comunicative della regista, una conclusione del genere veicola il contenuto in maniera mediocre e illusoriamente sdolcinata.