Vincitore del premio come Miglior Documentario al National Society of Film Critics nell’anno del suo rilascio, Stop Making Sense è un docufilm del 1984 girato da Jonathan Demme sul concerto tenuto dal celebre gruppo musicale dei Talking Heads nel dicembre dell’anno precedente. Successivamente conosciuto per aver diretto il film tratto dall’omonimo romanzo, Il silenzio degli innocenti nel 1991 sulla figura mostruosa di Hannibal Lecter, il regista Jonathan Demme mostra la sua stravagante originalità e follia creativa mettendo in scena e portando sotto i riflettori una fra le band più particolari del panorama musicale rock attiva tra gli anni ’70 e ’90, i Talking Heads. Seguono di che parla e la recensione di Stop Making Sense, il film documentario del 1984 di Jonathan Demme sul concerto dei Talking Heads, portato sul grande schermo in occasione del suo 40esimo anniversario in versione restaurata 4K.
Stop Making Sense: di che parla il film documentario sui Talking Heads?
Prima di passare alla recensione, occorre riportare di che parla Stop Making Sense, il film documentario del 1984 diretto da Jonathan Demme. Nella pellicola vediamo rappresentato il concerto che la rock band statunitense Talking Heads ha tenuto durante tre serate differenti nel dicembre del 1983 presso il Pantages Theater di Hollywood. Lo spettacolo è stato definito dal critico cinematografico statunitense Leonard Maltin “uno dei più grandi film rock di sempre”, che gli è valso il premio ricevuto al Toronto Film Festival. Inoltre, nel film vengono mostrati anche filmati inediti girati durante il tour pre promuovere il loro album Speaking in Tongues rilasciato a giugno del 1983.
La recensione di Stop Making Sense: un docu-concerto che trascende lo schermo
Di documentari musicali su artisti e band, storici o recenti che essi siano, se ne vedono in quantità fin troppo spropositate, spesso cavalcando l’onda della popolarità di questi per sfruttare un resoconto in termini di ricavi distribuendoli sia sul grande schermo o sulle maggiori piattaforme streaming in circolo, senza però badare alla qualità dell’esperienza che ne risulta. Ed ecco che in un panorama del genere, brillano e dunque saltano più all’occhio le rarità, i pezzi unici, nello specifico il caso dello stravagante Stop Making Sense, il documentario concerto diretto da Jonathan Demme sulla band Talking Heads, un vero diamante grezzo unico nel suo genere. Dai primi secondi di visione, lo spettatore di Stop Making Sense, che esso sia un fan, un conoscitore o del tutto estraneo alla loro musica, si accorgerà dell’esperienza a trecentosessanta gradi portata in scena dai Talking Heads nella sua totalità. Dalle coriste, ai musicisti che calcano e si muovono sul palco con movenze ritmate che incitano al ballo, invitano a danzare con loro, a cui non si può assolutamente resistere, fino ad arrivare all’eccentrico cantante e frontman David Byrne, impresso nell’immaginario comune per le sue iconiche giacche oversize indossate durante i concerti e clip musicali.
Le note dei brani dei Talking Heads sono ammalianti, ipnotiche tendono la mano allo spettatore – o meglio il microfono come fa proprio David Byrne durante la performance di uno dei brani guardando dritto nella camera e rompendo la quarta parete – e lo chiamano sul palco per unirsi in un’esperienza fatta di disinibizione, per lasciarsi andare e travolgere dal ritmo e dalla musicalità rock che percorre le canzoni più movimentate così come quelle più lente. Ecco che Stop Making Sense si svela nella sua vera essenza, una vera scoperta visiva e uditiva, troppo sensoriale e sinestetico per essere chiamato banalmente un concerto, sarebbe persino un eufemismo definirlo uno spettacolo in quanto non ci si esibisce e basta solo per il gusto di mettersi in mostra e offrire passivamente qualcosa da guardare e ascoltare.
Stop Making Sense è un’esperienza mostruosa, nel vero senso della sua radice etimologica che ne risalta la portata prodigiosa, fuori dal comune, che trascende lo schermo poiché coinvolge tutti i sensi, il corpo e la mente. Ecco che Stop Making Sense non è solamente un brano dei Talking Heads, da cui il documentario concerto prende il nome, ma diventa il biglietto da visita con cui si invita lo spettatore a smettere di cercare di dare senso a ogni cosa, e di unirsi sul palco con loro, come se stessero facendo entrare nel loro mondo, nella loro casa, come simulato dagli oggetti di scena, in quanto, per citare un’altra loro canzone, “Home is where I wanna be” e noi ci ritroviamo a pensare a quanto sarebbe stato bello essere lì di persona, durante le riprese di questo iconico e inimitabile docu-film concerto.