Di recente si è saputo che Netflix aveva deciso di acquisire, all’interno del suo catalogo, il nuovo film horror prodotto da Sam Raimi, che intanto si trova a metà tra un nuovo percorso nel cinema horror – nell’ambito della sua carriera – e il ritorno in casa Marvel con un eventuale nuovo film di Doctor Strange. Il lungometraggio in questione prende il nome di Don’t Move ed è stato distribuito sul noto servizio di streaming a partire dal 25 ottobre 2024, in tutto il mondo, con un risultato piuttosto ambivalente, considerando l’attenzione degli addetti ai lavori: ma qual è il nostro giudizio? Per comprenderlo, si indica di seguito la trama e la recensione di Don’t Move.
La trama di Don’t Move: di che cosa parla il nuovo film horror diretto da Sam Raimi?
Nel procedere con la recensione di Don’t Move, l’ultimo film horror prodotto da Sam Raimi presente su Netflix, si vuole considerare innanzitutto quale sia la trama del lungometraggio in questione. Dopo aver perso suo figlio Mateo, che cade per sbaglio da un burrone mentre è distratta, Iris vorrebbe suicidarsi cadendo dallo stesso punto: la raggiunge, mentre sta per compiere l’estremo gesto, un uomo che si presenta come Richard e tenta di salvarla, parlando della donna che amava e che ha perso in un incidente stradale; Iris, fidandosi dell’uomo, decide di non rinunciare più alla sua vita, ma scopre che quella persona che l’ha salvata non è così benevola come poteva credere: con un farmaco, infatti, la paralizza in soli 20 minuti, e decide di rapirla.
La recensione di Don’t Move: tanta artigianalità di raimiana memoria, in un contesto horror incredibilmente blando
Una donna intende suicidarsi, ma viene salvata da un uomo proprio quando sembra sull’orlo di saltare da quel burrone dove è morto anche suo figlio; quello stesso uomo la rapisce dopo qualche minuto e la paralizza con un particolare farmaco che agisce in soli 20 minuti: come riescono a legare queste due realtà così apparentemente antitetiche, tanto nella messa in scena quanto nell’idea di genere? È questa la premessa di Don’t Move, l’ultimo film prodotto da Sam Raimi che è stato acquisito da Netflix e che muove i suoi passi da un’idea sicuramente molto interessante, che del resto può tranquillamente rispondere ad un interrogativo: e se l’horror evadesse rispetto alla tradizionale logica di un’ambientazione, o comunque una situazione, iniziale già di per sé inquietante? Certo è che, come avviene per tutte le belle idee, mettere in atto ciò che ha bisogno di acquisire una forma è sempre molto difficile e, nel marasma generale di espedienti fallaci e di scelte di regia banalissime, Don’t Move risulta essere la solita (neanche troppo cocente) delusione per il genere horror, in un 2024 sicuramente molto ambivalente per i prodotti offerti.
Tentando di proseguire con ordine, l’oggetto della narrazione è chiaro: che Sam Raimi sia il produttore di questo film appare molto riconoscibile da alcuni elementi, che si tratti della casa in cui si svolge claustrofobicamente parte della narrazione o del numero esiguo di personaggi – quattro in totale, più altri due che si ascoltano brevemente soltanto in voce -, tutto sembra rimandare a quell’idea veloce e puntuale di cinema horror del suo produttore, ma siamo lontani anni luce da quei guizzi di regia e da quei movimenti di camera che sappiano accentuare le grandissime capacità di Sam Raimi. Certo è che il vero punto positivo del film, le morti, riesce davvero ad essere convincente: non si tratta di un dettaglio banale, poiché molto spesso negli horror le morti finiscono per essere elementi di contorno, quasi addirittura banali rispetto al concetto generale della costruzione dell’inquietudine, mentre in questo caso si osserva un crescendo sicuramente molto interessante, tale da rendere la carne dei personaggi uccisi malleabile e immediatamente putrefatta, in scene di grande efficacia visiva (viene in mente il parziale scalpo di uno dei personaggi uccisi da Richard/Andrew, così come la stessa morte finale dell’uomo con un coltello che gli si conficca tra gola e guancia) che aumentano la qualità dei momenti più concitati del film.
Purtroppo, pur nei 92 minuti totali – che diventano poco più di 85 considerando i titoli di coda – del film, gran parte del ritmo risulta non soltanto blando, ma anche infruttuoso nella resa della non-azione. Normale, si direbbe, considerando che il tema generale del film è il “non muoversi”, ma è proprio sull’elemento dell’impossibilità sensoriale che si potrebbe e dovrebbe costruire una messa in scena degna di nota, costringendo quasi lo spettatore a compartecipare alla stessa condizione di crisi motoria; purtroppo, complici soprattutto scelte grossolane nei più banali movimenti della macchina da presa, non si riesce in questo intento. E non solo, dal momento che il film si concede – fin dall’inizio, con il coltellino della donna ingiustificatamente abbandonato a se stesso nel momento della fuga – a espedienti semplicissimi e scarsi, che permettano di collegare quanto più velocemente possibile le diverse sezioni del lungometraggio, fino ad un finale di cliché e dal colpo di scena naturalmente telefonato. Le ambizioni, lo si ripete, c’erano e la possibilità di costruire un horror fatto di cristallizzazione dei corpi e di immobilismi appariva sicuramente interessante: gli esecutori della buona idea, però, non possono dire di aver risposto al meglio.