Queer è il titolo del film diretto da Luca Guadagnino presentato in concorso a Venezia81. Il noto regista italiano è stato più volte ospite al Festival, e l’ultima volta si è aggiudicato il Leone d’argento per Bones And All. In questa occasione l’attore protagonista scelto per interpretare il personaggio di Lee è Daniel Craig, noto per aver prestato il volto all’iconico James Bond, ma come se l’è cavato in un progetto maggiormente introspettivo e sulla carta complesso? Di seguito la recensione di Queer.
La trama di Queer, film di Luca Guadagnino con Daniel Craig
Queer è stato presentato in anteprima mondiale alla 81esima edizione della Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, più precisamente il 3 settembre 2024. Riprendendo i concetti e la narrazione dell’omonimo libro del famoso scrittore William S. Burroughs: di cosa parla Queer? La trama ufficiale del film di Luca Guadagnino:
“È il 1950. William Lee è un americano sulla soglia dei cinquanta espatriato a Città del Messico. Passa le sue giornate quasi del tutto da solo, se si escludono le poche relazioni con gli altri membri della piccola comunità americana. L’incontro con Eugene Allerton, un giovane studente appena arrivato in città, gli mostra per la prima volta la possibilità di stabilire finalmente una connessione intima con qualcuno.”
La recensione di Queer: il nuovo film di Luca Guadagnino segna un passo indietro nella carriera del regista
Operazione tra le più suggestive in assoluto, sia per il proseguo della carriera di Luca Guadagnino che all’interno del concorso di Venezia81, Queer rappresenta un passo ambizioso proprio perché il cineasta italiano ha deciso di attingere da una matrice letteraria complessa e al contempo seducente. L’omonimo romanzo breve scritto da William S. Burroughs è infatti, come sottolineato in questo approfondimento dedicato, molto vicino al modo di fare cinema di Guadagnino, il quale ha per anno bramato la possibilità di curare una trasposizione sul grande schermo. Da premettere che il film ha subito dei corposi tagli, ragion per cui la sua durata complessiva è scesa da 180 a 135 minuti, e di fatto si è venuta a creare una problematica non da poco. Da sempre il regista collabora con il montatore – quasi sempre Walter Fasano, ora Marco Costa – per costruire il racconto al meglio, componendo delle immagini ad hoc finalizzate ad espandere in maniera rigorosa la semantica del film. Questo aspetto non è mai stato tradito nel cinema di Guadagnino, specialmente all’interno dei suoi lavori di maggior prestigio: Io sono l’amore, Chiamami col tuo nome, Suspiria, Challengers; tutti hanno in comune un raffinato rapporto tra denotazione e connotazione, significante e significato, e il suddetto fattore è dato soprattutto dal montaggio, oltre che dalle scelte di inquadrare.
Quello che sorprende in negativo in Queer è proprio la mancanza di cura in termini di montaggio, laddove è evidente il brutale intervento di taglio. Il primo dei quattro capitoli in cui è suddiviso il lungometraggio con Daniel Craig è elegante nella forma, spigliato nel contenuto e sublime per come viene fedelmente trasposto il romanzo di Burroughs, con l’attore ex 007 abilissimo nel sedurre lo spettatore. Craig, meglio dirlo subito, è la colonna portante di Queer, poiché manifesta in pieno tutta la sofferenza di Lee, il suo desiderio sessuale, la sua tossicodipendenza e gli spettri del passato che bussano continuamente alla porta. Dunque, il film di Guadagnino cattura l’attenzione, e lo fa anche con l’inserimento di alcuni tratti puramente onirici, come per esempio la finta ripresa dalla televisione nell’incipit, oppure l’appassionante anelito di Lee di toccare Allerton rappresentato in forma tangibile (la mano fantasmatica che si allunga inerme). Tuttavia, più scorrono i minuti e, specie con l’avvio del secondo capitolo, diminuiscono le citazioni all’arte (ad esempio Magritte), si perde l’effetto sognante e di conseguenza si privilegia la voglia di mettere in sequenza le immagini allo scopo di inserire quante più battute possibili tra quelle riprese di pari passo dal libro. Una fretta francamente insensata sul piano narrativo, dove anche il fondamentale e graduale distacco tra Lee e Allerton avviene solo superficialmente; inoltre, sacrificare il girovagare del protagonista tra i bar gay di Città del Messico non consente di percepire il tono grottesco e diretto, non crea l’attesa sfrenatezza qui necessaria. Sono pochissimi gli scambi di battute tra i personaggi all’interno dei primi due capitoli, e dato il potenziale mostrato da un Jason Schwartzman in grande spolvero c’è da soltanto da rammaricarsene. Il senso di vacuità prosegue sul piano dell’erotismo, nonché di tutti quegli elementi epidermici essenziali nei film di Luca Guadagnino, poiché sebbene trasudino (letteralmente) sia durante il primo incontro tra Lee e Allerton che quando sono distesi insieme per la prima volta a letto, non affiora quasi mai la carnalità dei corpi che invece era presente nei precedenti lavori del regista.
Insomma, l’eccesso in Queer è inversamente proporzionale: troppi tagli, contano poco i corpi, non emerge la costruzione delle immagini mentali di Lee, non esce fuori l’ambiguità di Allerton (con un Drew Starkey in ombra) e, per concludere, il finale appare sbrigativo. Il risultato complessivo è allora sbilanciato, nonostante il fascino emanato dall’esigua quantità di scene oniriche, durante le quali l’emotività dei personaggi viene dolcemente a galla per poi scomparire nell’immediato tra uno stacco rapido e l’altro. Alla bellezza del primo capitolo, guarda caso il più lungo per minutaggio, risponde la sregolatezza – cinematografica si intende, purtroppo non estetica, tantomeno narrativa – di tutta la parte centrale di Queer, formata da sequenze sommarie che non concedono di mettere a fuoco l’evoluzione del racconto. Seguendo la matrice letteraria ci si attendeva senz’altro un numero ben più importante di rifiuti da parte di Allerton, di immagini riguardanti la psicologia e la sessualità di Lee che potessero risultare più forti, maggiormente spinte, audaci, eppure all’ammiccante attrattiva mossa da Guadagnino e Craig mancano quegli imprescindibili tratti di autenticità e di struggente passione. Persino l’uso delle soggettive è praticamente ridotto all’osso – a differenza anche di un film ben più debole come A Bigger Splash -, quando invece in Queer si sarebbe potuto estendere il campo allucinatorio legato allo sguardo di Lee, protagonista che, come detto, fa un abbondante uso di alcol e droghe.
In Queer, dunque, è la percezione che ha Lee del mondo circostante ad essere assente ingiustificata, e se non totalmente, quasi. Le immagini mentali messe in scena costituiscono il meglio che Guadagnino ha offerto in termini puramente cinematografici, ecco perché il loro “sacrificio” nella parte centrale, per intenderci quella del viaggio in Sud America, costituiscono un problema di grossa entità. Quando invece il regista e gli attori si lasciano andare completamente sembra di ammirare dipinti in movimento, corpi che si intrecciano in un atto sentimentale, profondissimo e ricco di significati, con un finale dotato di rara dolcezza finalizzato a richiamare quella gestualità appena accennata tra Lee ed Allerton. Ciò che viene suggerito è proprio il fiume in piena che il protagonista si porta dentro fino al momento della sua morte, ovvero una serie di sensazioni frastagliate tra amore, ricordi apparentemente svaniti, traumi irrisolti e tanto altro che lo spettatore immagina, ma che il film non mostra in quanto trattenuto. Queer è riuscito a metà, rappresenta un’operazione complicata che Guadagnino non ha fatto totalmente sua, forse perché preoccupato di tradire il romanzo, forse perché “trattenuto” da esigenze produttive. Avremmo tanto voluto conoscere il Lee del primo capitolo, addentrarci sul serio nella sua mente andando affondo, scoprendo qualche peculiarità della sua psicologia, ciononostante si conclude la visione come se si fosse stati respinti. Bene per il meraviglioso legame tra forma e contenuto del primo capitolo, così come per le immagini dell’epilogo, ma non benissimo: la parte centrale di Queer sembra un’opera incompiuta, mentre il finale surrealista rivela qualche elemento in più senza che vi sia stato tutto un precedente processo empatico a sancire il definitivo passaggio emotivo.