Presentato al 57° Festival di Cannes, Calvaire è il primo film scritto e diretto dal regista belga Fabrice Du Welz. Quello con protagonista Laurent Lucas è un horror psicologico molto particolare, per un infernale viaggio attraverso la follia dell’uomo scaturita dall’abbandono anche e soprattutto alla propria bestiale natura.
La trama di Calvaire, il primo film di Fabrice Du Welz
Su sceneggiatura dallo stesso regista e di Romain Protat, Calvaire vede protagonista il fascinoso cantante Marc, sempre in giro per il Belgio nella possibilità di potersi esibire e finendo col cantare negli ospizi, dove cattura il cuore di anziane ed infermiere. In viaggio verso la prossima meta, tuttavia, il furgone di Marc si ferma nel bosco e viene soccorso da Boris, uomo con problemi mentali alla ricerca del suo cane. Per passare la notte, Marc viene così accompagnato alla vicina locanda del proprietario Bertel, uomo gentile e premuroso che si offre di trainare il furgone di Marc per poterlo riparare. L’ospitalità cordiale rivolta a Marc, tuttavia, si rivelerà essere ben presto una facciata, volta a mascherare la follia del luogo che presto travolgerà il giovane cantante.
La recensione di Calvaire: dei porci essi avevano il corpo, voci, setole ed aspetto
Al fine di inaugurare la recensione, dell’opera di debutto del talentuoso regista belga Fabrice Du Welz, potrebbe essere opportuno incominciare proprio dal titolo del film. Attraverso la sua sceneggiatura, il regista decide di affidarsi principalmente alla potenza delle immagini, piuttosto che ad inutili spiegoni, nel narrare il surreale “calvario” del suo personaggio protagonista, incarnato con sofferenza nel nuovo Messia per reggere su di sé i peccati dell’uomo, inteso proprio come genere maschile.
Ammirabile infatti come Calvaire si risolvi sostanzialmente in un film femminista, che tende a sottolineare a gran voce la fondamentale importanza della donna nella nostra società, senza però mostrare personaggi femminili chiave durante la sua visione, se non nel suo incipit. Un beve momento in cui viene presentato il protagonista Marc, uomo affascinante e di talento abbandonato però alla sua fallimentare vita solitaria, cercando di sbarcare il lunario in piccoli locali od ospizi ed attirando l’attenzione solo di qualche anziana rinvigorita. L’abbandono e la disumanizzazione saranno infatti i cardini principali che marchieranno a sangue il suo prossimo calvario, addentrandosi in un luogo/non luogo popolato solo da uomini.
Tra quelle poche case di quest’isola bucolica, Du Welz mostra di fatto la spirale di follia che avvolge l’uomo abbandonato a sé stesso, alla sua natura bestiale. Senza una rispettiva controparte femminile, questo si ritroverà infatti inevitabilmente spaesato e sopraffatto dai propri istinti animaleschi, tanto nel sprigionare violenza quanto nel soddisfare le proprie esigenze sessuali. Piccoli uomini selvaggi alla costante ricerca della propria metà, smarrita da qualche parte, finendo per perdersi nella selva oscura della ragione ed incappando in trappole allucinatorie. Ed è così che la solitudine spinge gli abitanti del villaggio ad immaginare la presenza di una controparte femminile in ciò che hanno davanti, siano essi animali o sfortunati stranieri di passaggio.
In Calvaire si instaura in tal senso anche un necessario bisogno nell’uomo di possedere quella propria metà, capace di placare e completare i propri istinti bestiali, con l’atto conclusivo del film che ne diventa infatti emblematico. La portata della surreale notizia del ritorno di Gloria, di una donna, è tale nel villaggio da produrre una vera e propria allucinazione collettiva, che spingerà il suo ex amante a volersela riprendere a mo’ di trofeo, di bestia. Successivamente all’esplosione di violenza narrativa e visiva, in Calvaire ci si ritrova ad un finale a suo modo dissacrante. Pur fisicamente libero e salvo, Marc ha infatti perso ormai la propria umanità nel rispondere a Bartel in qualità della sua scomparsa Gloria, abbandonato al suo “calvario” nel vagare attraverso la fitta selva della sua bestiale natura.
La recensione di Calvaire: una bestiale discesa nella follia più autentica
Il primo film di Du Welz riesce a conquistare lo spettatore proprio per la capacità di riuscire a regalargli un’autentica discesa nella follia, per una visione che si mantiene particolarmente opprimente senza il bisogno di spingere sul lato dell’orrore. Eccezion fatta per qualche breve momento, in Calvaire il sangue non scorre vivido ma ristagna e marcisce, facendo particolarmente leva su una violenza psicologica restituita in maniera sublime dalla messa in scena.
Tanto la fotografia in chiaroscuro di Benoît Debie (Climax) quanto la ricerca estetica nella regia di Du Welz della costruzione dell’immagine, facilitano l’immersione in un’atmosfera cupa e penosa, rinvigorita dall’angoscia e dal grottesco che vengono alimentati anche dalla subdola sceneggiatura. A dir poco mirabile in tal senso la realizzazione della magnetica “ballata macabra” all’interno della locanda, dove l’allucinazione collettiva viene effettivamente mostrata sullo schermo in quello che sembrerebbe essere un disturbante rituale orgiastico. Un rito quest’ultimo che inaugura il climax finale, dove la spirale di follia si illumina di colori psichedelici nel delirante e cieco stupro, per una spettacolare ripresa dell’assedio che lascia il segno. Un’infernale discesa nella perdizione della ragione che colpisce direttamente il novello Messia, interpretato da Laurent Lucas (Raw – Una cruda verità), per una prova che non riesce forse ad incidere in profondità nell’emotività del personaggio, ma che risulta particolarmente funzionale nel restituire su schermo le sofferenze patite.
Nonostante poi gli appena 88′ di durata, il montaggio di Sabine Hubeaux riesce a scandire a dovere il tempo della narrazione in un climax crescente di ansia e paranoie, rinforzate dalla colonna sonora di Vincent Cahay. Insomma, con il suo film d’esordio il regista Fabrice Du Welz realizza un opprimente horror psicologico che si trascina tra le trappole del cinema grottesco ed angosciante, avendo come tema di fondo una profonda analisi antropologica. Alla mancanza della propria controparte femminile ed abbandonato ai suoi istinti, l’uomo tenderebbe infatti a regredire al suo stadio animale, dando libero sfogo alla violenza e alla soddisfazione dei propri bisogni naturali.