Recensione – Painkiller: la serie TV Netflix sulla nascita dell’OxyContin

Recensione – Painkiller: la serie TV Netflix sulla nascita dell’OxyContin

Distribuita sulla piattaforma di streaming Netflix a partire dal 10 agosto 2023, Painkiller è una nuova serie TV creata da Micah Fitzerman-Blue e Noah Harpster e ottenuta da due riferimenti costanti: l’articolo del New Yorker The Family That Built an Empire of Pain di Patrick Radden Keefe e il libro Pain Killer: An Empire of Deceit and the Origin of America’s Opioid Epidemic di Barry Meier. La trattazione è quella dell’OxyContin, farmaco conosciuto anche con il nome di ossicodone e appartenente alla famiglia degli oppioidi; il suo consumo e abuso negli Stati Uniti sono stati oggetto di una lunga e delicata trattazione scientifica, di cui si mostra parte dei processi all’interno della serie: di seguito, la trama e la recensione di Painkiller. 

La trama di Painkiller, la nuova serie TV Netflix

Prima di proseguire con la recensione di Painkiller, la nuova serie TV Netflix sulla nascita e lo sviluppo dell’OxyContin, si parte innanzitutto dalla sua trama: a 25 anni di distanza dalla comparsa dell’ossicodone nel mercato farmaceutico statunitense, la serie si occupa di denunciare l’intera genesi che ha portato Richard Sankler a concepire la nascita di un farmaco contro il dolore, in grado di creare dipendenza e, per questo motivo, alla base di numerose morti e tragedie in tutto il mondo. L’obiettivo: quello di guadagnare denaro attraverso tecniche di marketing che hanno rivoluzionato la medicina statunitense ma che, allo stesso tempo, hanno annullato la percezione secondo la quale riferirsi al proprio medico sia sinonimo di sicurezza. 

La recensione di Painkiller: marketing, OxyContin ed eccessiva retorica

Dopo aver approfondito quale sia la trama di Painkiller, la serie TV Netflix che racconta la nascita e lo sviluppo dell’OxyContin, si viene adesso alla recensione della miniserie creata da Micah Fitzerman-Blue e Noah Harpster. Si parte naturalmente dalle premesse: riuscire a trattare con grande lucidità di un tema ancora molto caldo, negli Stati Uniti e in tutto il mondo, e del quale si è tornato a discutere con grande veemenza negli anni difficili del Coronavirus, rappresenta sicuramente una sfida coraggiosa per Netflix, che mette in campo una disamina spietata degli effetti dell’ossicodone, affidandosi ad una trattazione seriale e cercando di ricostruire la genesi di uno dei processi medici più complessi e disastrosi degli ultimi anni: la diffusione di un oppioide, dalla formula molecolare praticamente analoga a quella dell’eroina, sugli scaffali di ogni farmacia. Per farlo, la prospettiva è quella di pan continuo montaggio alternato che possa ricostruire le vicende fin dal loro inizio; per affrontare la grave situazione di crisi dettata dai debiti e dalla morte del pater familias, la Purdue Pharma rappresentata da Richard Sankler si affida al talento commerciale del suo precedessore e, soprattutto, sulla ricerca più ossessiva da parte dell’essere umano: fuggire dal dolore. 

 

 

Lo sviluppo dell’OxyContin, così, nonostante sia inizialmente osteggiata da parte della FDA, diventa imperversante, come mostrato anche dalla prospettiva di alcune famiglie e persone che iniziano ad abusarne, assumendo la pillola ogni 12 ore. La dipendenza dal farmaco, che diventa via via sempre più marcata nella rappresentazione di chi viene curato con questo oppioide, assume la forma macabra di scene anche piuttosto tratteggiate in termini di rappresentazione del dolore e dell’eccesso: è emblematica la scena in cui, ad esempio, un uomo totalmente assuefatto dall’OxyContin non si rende conto di star mordendo il suo stesso dito, non riuscendo più a provare il minimo stimolo fisico. Se, da un lato, l’impianto della serie funziona poiché riesce a rappresentare e a rendere l’immagine più chiara di ogni altra spiegazione, si avverte la sofferenza di quel che – nei fatti – è un documentario trasposto sotto forma di serie. Il disclaimer iniziale di ogni episodio è sempre lo stesso: tutto ciò che si osserva è reale, così come reali sono gli abusi, le morti e le dipendenze mostrate. Tuttavia, la serie prende troppo velocemente la strada della retorica, risolvendo il tutto in una piuttosto semplificata condanna capitalista che non si impegna nel puntare il dito contro intermediari, medici negligenti, complici che hanno accettato di buon grado di arricchirsi, pazienti incapaci di fermarsi e, soprattutto, addetti ai lavori totalmente avulsi rispetto ad una realtà dilagante, che avrebbero dovuto osteggiare. 

 

 

In secondo luogo, la struttura della serie TV maschera, nei fatti, un documentario, servendosi della voce (e della presenza) di Uzo Aduba durante tutta la sua durata, tentando così di ricostruire un filo conduttore e una narrazione che però appaiono deboli. Benché se ne riconosca il motivo, il formato miniseriale in 6 puntate non funziona al meglio per una trattazione che avrebbe avuto bisogno di ben altra struttura; sarebbe stato forse meglio concepire il tutto attraverso un documentario in tre puntate, ad esempio, sulla falsa riga del recente caso di Arnold che – nonostante abbia problemi di altro tipo – riesce a catturare lo spettatore risolvendo la narrazione in più macroaree; allo stesso tempo, ciò che manca è la caratteristica fondamentale del documentario che Painkiller non vorrebbe essere: l’affidarsi ad una base solida dalla quale muovere le proprie opinioni che, per quanto assolutamente veritiere, sembrano essere diffuse in maniera caotica durante i sei episodi. Sul finale, la serie finisce per essere piuttosto stantia e ripetitiva, pur tentando a forza di risollevarsi nelle ultime battute: i recenti casi di documentario (quali Respiro Profondo) hanno dimostrato che si può far meglio, se l’impianto produttivo è adeguato e sa rispettare la materia trattata con garbo. 

Voto
3/5
Gabriele Maccauro
0/5

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