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Recensione- Io sono un autarchico: La solitudine morettiana

Io sono un autarchico”, primo film del regista romano Nanni Moretti, fu alla sua uscita nel dicembre del 1976 un piccolo caso nel circuito indipendente italiano. La popolarità della pellicola infatti aumentò di settimana in settimana, grazie a un passaparola molto positivo e vide l’opera venir proiettata nella maggior parte dei centri sociali e cineclub della capitale.

 

Il film sembrò segnare per il pubblico di allora un netto taglio rispetto agli stilemi e alle tematiche della classica commedia all’italiana, genere codificato da maestri quali Monicelli, Scola, Germi etc. che videro in Moretti il loro più strenuo oppositore (a imperitura memoria vi è la puntata di Match: domande incrociate nel corso della quale, nel 1977, Monicelli e Moretti si confrontarono per circa mezz’ora riguardo il contrasto tra la commedia all’italiana e il cinema che stava nascendo e sviluppandosi negli anni 70).

 

Di seguito la trama e la recensione di “Io sono un autarchico”.

La trama di Io sono un autarchico

Il film ruota intorno alle vicende di Michele, ragazzo romano tra i venti e i trent’anni, che vive in un appartamento a spese del padre, avendo alle spalle una relazione fallita che gli ha lasciato un figlio a cui badare. Michele passa il suo tempo collaborando con una compagnia teatrale gestita dal suo amico Fabio, il quale tenta in tutti i modi di accaparrarsi i consensi di critica e pubblico.

La recensione di Io sono un autarchico

Tra le indubbie capacità che anche il più arcigno dei detrattori è pronto a riconoscere a Nanni Moretti vi è quella della scelta di titoli assolutamente centrati e in grado di racchiudere in poche parole il nucleo fondante dell’opera che ci si appresta a esperire. “Io sono un autarchico” è infatti l’espressione della massima aspirazione del protagonista nella pellicola.

 

L’indipendenza, la capacità di essere a sé stessi sufficienti e un’ideale atarassia sono tutto ciò che Michele non sarà in grado di raggiungere nel corso della pellicola per, come spesso accade nelle opere di questo regista, una lunga sfilza di ragioni, la prima delle quali è rappresentata dalla sua ideologia. Moretti è un regista politico e dunque, che piaccia o meno, i suoi percorsi intellettuali sono accomunati da una coerenza di fondo che lo fa afferire a una ben precisa corrente di pensiero. Ciò non toglie tuttavia che il suo essere schierato non gli permetta di esprimere dubbi e perplessità riguardo l’apparato ideologico a cui aderisce.

 

Nel caso di quest’opera è dilaniante il dissidio interiore che coglie il protagonista, sempre in bilico tra un’anelata indipendenza che non può che sostanziarsi nel distacco tra lui e la collettività e la ferrea convinzione di identificarsi in un’ideologia, quale quella marxista, che affonda le sue radici nel concetto di classe unita. Il tutto è brillantemente riassunto in una singola battuta che con grandissima capacità comica e sinestetica fotografa questo dualismo, ovvero quando, nel corso della lettura di un testo di Marx, Michele si chiede se forse non abbia sbagliato ideologia.

 

A emergere poi inequivocabilmente è anche la narrazione che Moretti fa (e farà nel corso di tutta la sua carriera) della generazione cui appartiene. I fasti del boom economico sono terminati, a dilagare non sono più le opportunità quanto un senso di endemica solitudine e instabilità nel quale un figlio non è una meravigliosa prosecuzione della propria esistenza quanto più una presenza da tollerare e quasi un errore di cui dolersi. Questo spaesamento è molto puntualmente messo in scena attraverso la confusione artistica che regna nella compagnia teatrale gestita con pugno di ferro da Fabio, microcosmo nel quale regnano disordine e caos, forze estranee alla coerenza e alla visione d’insieme che dovrebbero appartenere a un processo artistico.

A ulteriore corollario vi sono poi le critiche, sferzanti e affatto velate, che Moretti rivolge (e rivolgerà in futuro) a molti registi suoi coevi. In “Io sono un autarchico” il bersaglio designato è Lina Wertmuller, protagonista suo malgrado di una delle scene più esilaranti della pellicola che si mantiene sempre in bilico tra tragedia e commedia, farsescamente deprimente come spesso la vita si rivela.

 

Il punto poi di maggior interesse del film riguarda sicuramente il linguaggio cinematografico adottato che segna una netta cesura con quello fino ad allora utilizzato dai registi della commedia all’italiana.

La trama è di per sé labile e le situazioni si susseguono senza essere congiunte da stringenti rapporti di causa-effetto, il filo conduttore infatti è piuttosto da rintracciare nell’apparato tematico e filosofico della pellicola, gli avvenimenti a schermo servono a puntellare e cesellare un discorso che il regista porta avanti e che tende a spogliare di molti degli artifici spesso adoperati dalla commedia. In tal senso la recitazione su tutte assume un ruolo assolutamente marginale, la sua spontaneità mai mimetica (come in altri termini avviene anche nel cinema di Bresson) richiede allo spettatore di assumere il punto di vista del regista e di seguirne il tracciato, tralasciando in parte la completa immedesimazione con i personaggi a schermo.

 

La pellicola chiaramente, come spesso accade con le opere prime, non è esente da difetti, si può riscontrare una certa meccanicità in diverse dinamiche a schermo e l’estrema indipendenza del progetto ne evidenzia i limiti tecnici, tuttavia è intuibile fin da questi primi 95 minuti che il nome di Moretti sarebbe stato destinato a rimanere nel panorama del cinema italiano a lungo.

Voto
3.5/5
Garbiele Maccauro
3/5
Christian D'Avanzo
3/5