Shiva Baby è il film d’esordio per la giovanissima regista Emma Seligman, che ha realizzato il suo primo lungometraggio all’età di 25 anni grazie alla collaborazione con Rachel Sennott, che agisce nelle vesti di protagonista. L’attrice, già particolarmente nota per il suo ruolo in questo lungometraggio di 78 minuti, è tornata a collaborare con Emma Seligman anche nelle vesti di sceneggiatrice in Bottoms, del 2023. Shiva Baby, un film dal budget ridottissimo di 200mila dollari, è stato incluso (e fortemente consigliato) nella piattaforma di streaming MUBI a partire dal giugno del 2021, dov’è attualmente presente. Di seguito, si indica la trama e la recensione di Shiva Baby, un film da recuperare assolutamente.
La trama di Shiva Baby, l’esordio di Emma Seligman
Si parte, naturalmente, con la trama di Shiva Baby. Il film inizia con un atto sessuale tra Danielle (Rachel Sennott) e Max (Danny Deferrari), suo sugar daddy. La ragazza spiega all’uomo di star mettendo soldi da parte per iscriversi al college, per frequentare la facoltà di giurisprudenza, quando viene chiamata dalla madre, che la obbliga a prender parte ad uno shiva (una ricevimento che viene realizzato per commemorare un defunto) dove non può mancare, dopo aver saltato il funerale del suo defunto parente.
Quando la ragazza giunge allo shiva, si rende conto che anche Max è lì presente, insieme a sua moglie Becky (Diana Agron), Maya (sua ex ragazza e amica), e ad un insieme di parenti che continuano, attraverso domande apparentemente ingenue, a realizzare insinuazioni a proposito dello stato di salute, della sessualità e degli studi della ragazza. La condizione, particolarmente imbarazzante, vissuta dalla protagonista porterà a creare una vera e propria pentola a pressione pronta a esplodere, in un prodotto dalla scrittura sopraffina che sa imbarazzare, divertire e puntare il dito (anche) contro lo spettatore.

La recensione di Shiva Baby: un film dalla scrittura impeccabile
Lo shiva è il rinfresco funerario che viene realizzato per commemorare un defunto nella cultura ebraica: un luogo ed un momento culturale in cui la grande abbondanza di persone è, di per sé, portatrice di un imbarazzo e di un’ansia sociale che non possono che essere consequenziali. Basterebbe questo elemento, unito alla caratteristica scelta di riprese di (quasi) soli interni per rendere Shiva Baby un prodotto estremamente intelligente: il film si presenta attraverso 78 minuti particolarmente densi che fanno venire in mente, immediatamente, il ritmo e la gestione dei tempi del pur breve Carnage, di Roman Polanski.
All’elemento dominante della pellicola, però, Emma Seligman aggiunge l’espediente della sugar baby, una ragazza, spesso studentessa, che decide di offrire il suo corpo in cambio di denaro, affidandosi ad uomini benestanti che possano ricompensarla con denaro, doni o favori di altro genere. Ne deriva Shiva Baby, un film in cui l’ambiguità e l’imbarazzo che ne deriva sono i due fattori fondamentali, attraverso un’opera che tenta di mettere in primo piano la contrapposizione tra due culture e impostazioni sociali diametralmente opposte: da un lato il proprio corpo che viene offerto, attraverso un’interpretazione della propria libertà individuale e sessuale; dall’altro la chiusura asfissiante degli spazi, del preconcetto e – si direbbe, esagerando – del genere umano.
Abbandonando fin da subito la volontà di realizzare un film che giochi solo ed esclusivamente sull’aspetto sessuale (per quanto Emma Seligman, guardando anche a Bottoms, faccia di quest’aspetto il motivo del suo interesse cinematografico), Shiva Baby diventa un prodotto in grado di riflettere con grande intelligenza sui giochi di potere, sulle contrapposizioni gerarchiche e verticali che ci sono tra gli uomini. Ogni personaggio del film è un’ideale belva famelica di sensazioni, ricordi, concetti e schemi culturali, che manifesta il proprio pensiero posizionandolo come un tassello all’interno di un ideale puzzle. Così, il discorso generale del film di Emma Seligman ha a che fare tanto con scuola, studi, lavoro, famiglia, quanto con sesso, corruzione e raccomandazione: ogni donna e uomo del film tenta, in qualche modo, di affermare se stesso mettendo in primo piano l’annientamento dell’altro, affinché possa affermarsi la propria personalità, resa evidente soltanto a seguito di un perverso gioco di botta e risposta, come in un’interminabile partita a scacchi in cui non ci sono vincitori e vinti, ma solo eterne patte.
Quando Danielle crede di aver battuto sul campo Max (che non le ha detto di essere sposato), attraverso la proposta di sesso orale che realizza senza proferir parola in bagno, i rapporti di verticalità diventano estremi ed abilmente rappresentati: la donna si era già mostrata nella sua nudità, in scatti provocanti e mettendo in imbarazzo l’uomo davanti a sua moglie con domande ambigue; proprio quando è lei ad inginocchiarsi per stabilire la sua potenza di fronte all’uomo Max, quest’ultimo rifiuta, capovolgendo nuovamente il ritmo della narrazione e della gerarchia prestabilita. In questo ideale schema piramidale si inserisce anche Maya, nel più classico degli odi et amo con Danielle che sembra non trovare mai compimento, se non nella scena finale.

Le distorsioni da cinema horror grazie alla fotografia di Maria Rusche
Se la scrittura di Shiva Baby rappresenta sicuramente una perla, soprattutto per la gestione di un ritmo frenetico che lascia spazio ad un meritato (e indotto anche dalla colonna sonora) rifiatare, l’elemento che forse emerge maggiormente dall’osservazione del film riguarda la sua estetica da cinema horror. Grazie alla fotografia di Maria Rusche, che si serve di numerosi immagini distorte, di cromatismi accesi e di (talvolta eccessive) saturazioni, il film può concentrarsi su primi piani in grado di restituire la costante tensione che viene già resa impeccabile dalla scrittura. Un lavoro che, dunque, può dirsi sapientemente riuscito, considerando che la genesi di Shiva Baby era un lavoro universitario della stessa Emma Saligman, realizzato quando quest’ultima era poco più che 20enne.
Proprio a proposito della giovane età si può riscontrare qualche limite, rappresentato dalla volontà di marcare il territorio attraverso un utilizzo di quell’artificiosità narrativa e retorica che, nelle sue intenzioni, vorrebbe essere in grado di dimostrare le capacità narrative della regista. Non si parla certamente di un difetto che annulla il valore del film, quanto più di un “eccesso di gioventù” assolutamente perdonabile, dettato dalla volontà di offrire un di più caratteristico di quella naturale inesperienza che differenzia chi vuole mostrarsi arrivato da chi, in effetti, lo è. Bottoms rappresenterà un banco di prova già molto importante per Emma Seligman, pronta a diventare una delle registe già rappresentative nell’ambito del cinema indipendente dei prossimi anni.