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I film di Darren Aronofsky dal peggiore al migliore

A 25 anni di distanza dal suo debutto dietro la macchina da presa, il regista, sceneggiatore e produttore statunitense Darren Aronofsky torna – dopo la 79° edizione del Festival Cinematografico di Venezia – anche nelle sale italiane con il suo ultimo film “The Whale”, in piena ottica Oscar 2023Un regista che si potrebbe definire “di culto”, con una particolare inclinazione autoriale nelle sue opere che non è ancora riuscito – forse vincitore proprio nel suo ultimo film – a mettere d’accordo tutto il pubblico e la critica, forte di un cinema sfuggevole, surreale, spassionatamente drammatico e spesso psicologicamente inquietante e disturbante. Con “The Whale” il regista raggiunge il suo 8° lungometraggio: di seguito, si offre una classifica dei film di Darren Aronofsky dal peggiore al migliore. 

Darren Aronofsky: i temi presenti all’interno dei suoi film

Un cinema, quello del newyorkese Darren Aronofsky, che fa dell’ossessione e della disgregazione fisico-morale i suoi principali marchi di fabbrica, con pellicole che vedono quasi sempre i suoi protagonisti alle prese con una vorticosa spirale discendente a causa dei vizi, delle perversioni e delle proprie manie. Privilegiando tonalità oscure – per poter rispecchiare al meglio l’opprimente narrazione – gli otto lungometraggi non sono quasi mai di facile approccio, a causa di una visione spesso sofferta, accomunati sempre da un alone religioso, mistico e con un personale approccio alla fede, al concetto di morte e rinascita ed un’opportunità per riflettere sulla natura umana. Di seguito la classifica dei film di Darren Aronofsky, dal peggiore al migliore.

8) Noah – 2014

<<L’idea espressa nel film è che noi siamo i discendenti del peccato originale e possiamo scegliere fra il bene e il male. Nell’antichità gli uomini scelsero il male e Dio distrusse il pianeta. Questo film è un monito: le acque si stanno alzando di nuovo e l’inquinamento sta distruggendo il pianeta.>>

 

 

Il peggiore dei film di Darren Aronofsky è Noah, del 2014, con Russell Crowe nei panni del protagonista. La tag-line della 6a opera di Darren Aronofsky recita: La fine del mondo…è solo l’inizio”, rappresentando un chiodo fisso del suo cinema ed amplificando il senso di dejavu anche per il soggetto che questa volta intende portare sullo schermo. Come per la sua terza regia in “The Fountain”, il regista torna al fantasy ed ancora le cose sembrerebbero sfuggirgli di mano, non limitandosi a portare sullo schermo le vicende narrate nell’Antico Testamento sull’Arca, ma inondando la pellicola di un fattore fantastico decisamente strabordante.

 

Sia chiaro, trattandosi di testi biblici l’elemento fantasy è sempre dietro l’angolo e le rivisitazioni personali del regista – che viene supportato in sede di sceneggiatura – non sono sicuramente fuori luogo (in “Noah” si combatte con magia e giganti di pietra), ma l’impacchettatura estremamente commerciale da colossal hollywoodiano sì (i 125mln$ si notano tutti nei grandi effetti speciali ma spesso non vanno a segno). Un minutaggio probabilmente eccessivo con diversi punti morti ed una narrazione che dà tutta l’idea di essere progettata a tavolino per riempire le poche trascrizioni sull’evento sicuramente danno una bella botta al film in termini negativi, tuttavia “Noah” rimane a suo modo affascinante ed innegabilmente ambizioso ed anti-convenzionale.

 

Nella sua opera divisa tra “storia” e fantasy, dramma esistenziale e action/war movie, Aronofsky riversa tutte le contraddizioni dell’umanità colpita e discendente dal cosiddetto “peccato originale”. Un patriarca – quello interpretato da un Russell Crowe in forma, per un cast lussureggiante – sicuro nella sua missione ma eternamente fragile ed insicuro, che si mostra quale uomo mortale ed istintivamente volto alla sopravvivenza (sua e della sua specie), ma allo stesso tempo Creatore e Distruttore riflettendo appieno il darwinismo cristiano (o evoluzione teista). In un anello di congiunzione tra lo scientifico ciclo della vita ed il misticismo legato al “piano superiore”, il film di Aronofsky è sovrabbondante ed impegnato tanto concettualmente, quanto esteticamente e narrativamente: un “troppo” che di fatto lo fa sprofondare forse al ruolo di “opera meno riuscita” per i molti difetti, ma che rimane di interessante valore soprattutto per la sua spregiudicatezza.

7) The Fountain: l’Albero della vita – 2006

<<Tutto quello in cui credo l’ho espresso nel mio film The Fountain. Io faccio film sulle cose in cui credo, e lì metto le mie risposte. Se siete curiosi su di me, andatevi a rivedere The Fountain.>>

 

 

Sei anni dopo “Requiem for a Dream”, Aronofsky torna in cabina di regia con forse uno dei suoi progetti più personali ed ambiziosi. Perennemente in bilico tra scienza e misticismo, il cinema del regista newyorkese trova in “The Fountain: l’Albero della Vita” un nuovo canale di sfogo per entrambe le sfere eternamente divise eppure sempre in stretto contatto.

 

 

Un progetto azzardato quello della terza opera di Aronofsky che vuole trattare l’elaborazione del lutto e la consapevolezza della mortalità dell’essere umano, ma non lo fa con un “classico” dramma al lato di un letto di ospedale, ma racconta molto di più, forse troppo ed in maniera se non eccessiva sicuramente esasperante (non necessariamente in termini negativi, dato che sostanzialmente è lo stesso cinema di Aronofsky ad essere “esasperante”). La storia è quella di Tomas, ricercatore in una clinica che tenta di combattere il cancro al cervello, deciso a tutti i costi a salvare la malata moglie. Aronofsky però mescola le carte in tavola, instaurando 3 linee temporali separate nei secoli e da un montaggio estraniante, che hanno come protagonista lo stesso personaggio Tomas: pur con vesti ed intenti diversi, l’Uno e Trino è sempre in missione per cercare di vincere la morte e trovare il segreto per la vita eterna, con la Morte che è la “strada verso l’assoluto”.

 

 

Così “The Fountain” diventa un racconto esistenziale, biblico, che va dalla storia in costume – al tempo dei conquistadores – fino alle stelle, Xibalba, passando dalle sale d’ospedale nel presente, attraverso l’utilizzo anche di importanti effetti speciali che esaltano il senso di “assoluto” e con una prova degna di nota del protagonista Hugh Jackman, che si fa letteralmente in 3. Dramma, avventura, fantasy e fantascienza si mescolano in un’opera complessa che potrebbe peccare sicuramente di presunzione (estremamente ambiziosa, sia tecnicamente che concettualmente, pur partendo da basi solide e già navigate), con soprattutto montaggio e scrittura che finiscono per perdersi lungo l’arduo cammino in più occasioni, ma che merita sicuramente degna considerazione per la sfrontatezza portata sullo schermo, le sue tematiche e la forte autorialità sprigionata da ogni inquadratura.

6) Π: Il teorema del delirio – 1998

<<La Torah è solo una lunga serie di numeri. Secondo alcuni è un codice che ci ha inviato Dio.>>

 

 

Al sesto posto tra i film di Darren Aronofsky l’opera prima del regista; “Il teorema del delirio” possiede già gran parte (se non tutte) delle principali tematiche del regista, raccontando l’ossessione per i numeri del geniale matematico Max Cohen, fortemente convinto che ogni cosa in natura possa essere spiegata con i numeri, con degli schemi logici e razionali. Entrando però in contatto con un fratello ebreo ortodosso e studioso della Torah, Max si convincerà che il linguaggio matematico della natura non è appunto logico e razionale, ma mistico e religioso.

 

 

Fede, ossessione e vortice di paranoie e dipendenza, un riassunto perfetto per il cinema di Aronofsky che si presenta al mondo con questo claustrofobico film indipendente in Bianco e Nero con protagonista Sean Gullette, anch’egli sceneggiatore del film. Un thriller psicologico – reso ancor più claustrofobico grazie all’opprimente colonna sonora di Clint Mansell – che inizia a lanciare il nome di Darren Aronofsky nel panorama indipendente, vincendo il premio alla Miglior Regia al Sundance Film Festival e quello per la Miglior Sceneggiatura d’Esordio agli Indipendent Spirit Awards.

5) Requiem for a Dream – 2000

<<Lo sai com’è, no? Poi tutto si aggiusta.>>

 

Presentato fuori concorso al 53º Festival di Cannes e tratto dall’omonimo romanzo del 1978 di Hubert Selby Jr, con la sua seconda regia – successiva all’indipendente debutto – Aronofsky inizia a farsi largo prepotentemente tra il grande pubblico sconquassando anche la critica, con un film tossico e di respiro hollywoodiano.

 

La storia è quella sostanzialmente di 3 personaggi – alle prese con le rispettive dipendenze, che vanno dall’eroina al sesso, passando per la tv – che vengono portati sullo schermo nei loro archi narrativi ascendenti e rovinosamente discendenti in 3 capitoli “stagionali”: la sceneggiatura di Aronofsky intitola infatti i capitoli Estate, Autunno ed Inverno, eliminando la Primavera quale simbolo di vista, rigogliosità e rinascita.

 

Il secondo film del regista newyorkese è infatti una spietata e cinica spirale dolorosa nell’incubo della droga, della dipendenza e della solitudine. Un pugno nello stomaco reso ancor più spigoloso non solo dall’opprimente colonna sonora – note che sono divenute fortemente iconiche e celebri – o dalla claustrofobica regia di Aronofsky (che abbonda negli schiaffi violenti allo spettatore in sede di montaggio, specialmente nel finale), ma anche e soprattutto per le 3 prove dei protagonisti Jared Leto, Jennifer Connelly e Ellen Burstyn (verrà candidata all’Oscar), che restituiscono nelle sofferte espressioni tutte le laceranti esistenze dei propri personaggi.

4) The Wrestler – 2008

<<Ho provato a dimenticarmi di te, ho provato a far finta perfino che tu non esistessi. Ma non ci riesco. Tu sei mia figlia, sei la mia bambina. E adesso… Sono un vecchio pezzo di carne maciullata, e sono solo. E me lo merito di essere solo. Vorrei soltanto che tu non mi odiassi.>>

 

Vincitore del Leone d’Oro alla 65a edizione del Festival di Venezia, Aronofsky realizza uno dei suoi film più acclamati – tanto dal pubblico quanto dalla critica – 2 anni dopo il flop (anche e non solo commerciale) di “The Fountain”. La storia è quella di Robin, celebre wrestler dedito a droghe ed alcol che, colpito da un infarto e troppo avanti con gli anni per continuare a combattere sul ring, decide di rialzarsi e non arrendersi a lottare nella vita, tentando di iniziare un nuovo percorso che includerà anche il volersi riavvicinare alla figlia ormai emotivamente troppo distante da lui.

 

Quello di “The Wrestler” è un epico e crepuscolare percorso catartico che si poggia sulla regia di Aronofsky alla sua quarta opera dietro la macchina da presa, non sbagliando con essa praticamente un colpo: attraverso un montaggio serrato, una lucente ed offuscata fotografia ed inquadrature a passo uomo, l’oscurità del palco che attende l’accendersi dei riflettori diventa per il regista metafora della sua cinica visione della vita.

 

Insidiato dai colpi della vecchiaia, il soggetto perfetto è il possente e devastato corpo di Mickey Rourke che, interpretando un personaggio scritturato appositamente per lui e per la sua personale storia (Miglior Attore ai Golden Globe e candidato all’Oscar assieme a Marisa Tomei), emoziona fortemente con un’interpretazione segnata da intensi rapporti umani e con il suo epico senso di rivalsa. Sulla soglia della fine si sogna la rinascita, con un salto nel vuoto sospeso nell’immortalità di una grande colonna sonora, dove una meravigliosa canzone di Bruce Springsteen (Miglior Canzone ai Golden Globe) fa a braccio di ferro con l’hard rock dei Guns N’ Roses.

3) Il Cigno Nero – 2010

<<Una giovane, dolce e pura, prigioniera nel corpo di un cigno, desidera la libertà, ma solo il vero amore spezzerà l’incantesimo. Il suo sogno sta per realizzarsi grazie a un principe. Ma, prima che lui le dichiari il suo amore, la gemella invidiosa – il cigno nero – lo inganna e lo seduce. Devastata, il cigno bianco si getta da un dirupo e si uccide e nella morte ritrova la libertà.>>

 

Entrando a passo di danza sul podio della sua filmografia e al terzo posto tra i migliori film di Darren Aronofsky, ancora una volta la rinascita che passa attraverso la morte nel cinema di Aronofsky, con questo straziante dramma – per certi versi sportivo – dalle tinte orrorifiche che inaugurò la 67ª Mostra del Cinema di Venezia. “Sportivo” – perché sostanzialmente “Il cigno nero” racconta la competizione tra le giovani, belle e talentuose Nina e Lily, due ballerine di danza classica che vengono coinvolte dal direttore artistico Thomas nella produzione di uno spettacolo su “Il lago dei cigni” – ma con il regista newyorkese che nuovamente viviseziona il senso di realizzazione ed appagamento dell’essere umano, anche se le conseguenze sono fatali.

 

Un gioco al massacro di specchi creati per riflettere la doppia anima dell’uomo, quella oscura e quella lucente, che prendono qui le sembianze di due cigni, puri e lussuriosi, innocenti e avidi, doppelganger dello stesso personaggio di Nina che permetterà a Natalie Portman di conquistare il suo primo Oscar per la Miglior Attrice ProtagonistaLa quinta mirabile regia di Aronofsky opprime il suo thriller psicologico – perverso e che strapiomba nel surreale e nell’onirico – per raccontare ancora una volta l’ossessione dell’essere umano per la realizzazione del sé, per divenire “completo” e “perfetto”, ma con la stessa ossessione/dipendenza che finirà inevitabilmente verso l’autodistruzione: sacrificio dell’Arte per l’Arte e la conseguente immortalità.

Classifica Film Aronofsky

2) The Whale – 2022

A distanza di 5 anni dal folgorante “madre!”, Aronofsky ci riprova e torna a Venezia nella 79° Mostra del Cinema con un altro film “distruttivo”, ma questa volta si parla di emozioni (anche se non solo) e quelle hanno colpito questa volta tanto i fan quanto la critica, sebbene la sua nomea e le sue opere vengano perennemente seguite da un forte “spaccato valutativo” (interessante notare come, soprattutto tenendo a mente le dinamiche del film, a Venezia abbia vinto il Leoncino D’Oro, premio assegnato da una giuria di giovani studenti).

 

 

Adattamento dell’omonima opera teatrale di Samuel D. Hunter – che ne scrive anche la sceneggiatura del film – l’ottavo lungometraggio del regista newyorkese è ingombrante ed inglobante, emotivamente lacerante e probabilmente il più “positivo” di Aronofsky, seppur la morte, il cinismo e la perdita della salvezza eterna siano sempre dietro l’angolo. L’ossessione ed autodistruzione rimangono sempre i capisaldi del suo cinema, che qui (anche metaforicamente) martorizza la carne e lo spirito a seguito dell’elaborazione del lutto, ma non in termini di impossibilità nel superare il trauma (consolidato, così come la propria condizione autodistruttiva) quanto proprio in veste autopunitiva.

 

 

Con “The Whale” Aronofsky rompe parzialmente con il suo precedente cinema – la rinascita e l’affermazione del sé non avvengono attraverso la fede (Dio ha voltato le spalle o non esiste) o la creazione di un processo artistico per l’esaltazione della propria affermazione, ma passa attraverso segni altruistici e materialmente concreti – ma ne conferisce ugualmente la propria autorialità. Molto affine alle dinamiche già visionate in “The Wrestler”, per il senso di riscatto in prossimità degli ultimi giorni da vivere e il tentativo di riallacciare rapporti creduti ormai perduti, in un questo kammerspiel emotivamente schiacciante Aronofsky riflette ancora una volta sul senso di rinascita e trascendenza a seguito della morte e della deflagrazione del sé, continuando ad essere provocatore e contraddittorio (in termini ovviamente artisticamente positivi ed affascinanti) tanto nel rapporto con la fede (anzi, con l’istituzione e il dogmatismo religioso) quanto nell’inscenare un protagonista tanto disgustoso quanto amorevole.

 

 

Inaugurando il film facendo immergere lo spettatore letteralmente nell’oscurità del suo mondo (che “oscura” anche la sua possente figura) per poi cercare di riemergerne, la standing ovation è infatti tutta per il Charlie gigante buono Brendan Fraser, che conquista e commuove nella sua intensa e sofferta interpretazione, che viene amplificata se si tiene conto anche del reale background dell’attore. Non limitandosi a trattare schiattamente ed in maniera genuinamente sincera l’omosessualità (con velenose stoccate alla politica ed istituzionalismo religioso), in “The Whale” il fondamentale comparto sonoro fa eco alla regia dello stesso Aronofsky, che racchiudendo l’immensità (tanto visiva quanto concettuale) della messa in scena nel 4:3 fa ennesima prova del suo elevatissimo tasso tecnico, nel districarsi fra i corridoi dell’appartamento che si fanno sempre più stretti.

1) madre! – 2017

Il migliore tra i film di Darren Aronofsky è madre!, del 2017, con Javier Bardem e Jennifer Lawrence. Dopo il tiepidissimo successo per “Noah” sia di critica che di pubblico, è il momento per Aronofsky per tornare agli alti livelli di “Il cigno nero” e “The Wrestler”. Ciò avviene con il suo 7° film, ricevendo i fischi al 74° Festival di Venezia e ricevendo anche 3 candidature ai Razzie Awards, tra cui quelle per la Peggior Attrice e Peggior Regista (le stesse ricevute anche da un certo “Shining” di un certo Stanley Kubrick, senza scomodare inutili paragoni che non sarebbero solo insensati ma a dir poco impari).


Bene, anche nella sua risposta di critica e pubblico (incassa 44mln$ contro un budget di 30) “madre!” potrebbe benissimo essere considerato il miglior film di Darren Aronofsky, non tanto in termini di “più riuscito”, quanto per il fatto che più di tutti riflette la summa del suo conflittuale cinema, avendo raggiunto ormai anche la maturità tecnica. Il regista newyorkese inscena tutta la sua conturbante preoccupazione legata alla natura dell’essere umano, tornando ancora una volta ai passi della Bibbia, ma qui nuovamente in modo decisamente poco convenzionale.


In un ciclo onirico e grottesco di processo creativo e distruttivo, Aronofsky lega il misticismo della fede e dell’arte – incarnato qui dal Dio/Poeta Javier Bardem – alla scientifica e razionale conservazione della vita e della specie con “Madre Natura” Jennifer Lawrence, senza tralasciare l’ossessione/fede del genere umano che, per soddisfare le proprie perverse e fanatiche realizzazioni, conduce inesorabilmente verso l’oblio, l’apocalisse e la (auto)distruzione della specie. Per poter costruire qualcosa di nuovo, di migliore, serve distruggere e ricominciare, morire per poter rinascere, ed è così che in un surreale e progressivo climax di ritmato delirio, violenza ed inquietudine, si giunge al rinvigorente finale tra le fiamme. Tensione palpabile offerta da un’ottima fotografia a lume di candela, dall’ingombrante assenza del sonoro e dalla regia funzionalmente perfetta di Aronofsky, che riprende costantemente una sofferente Jennifer Lawrence che incanta e compone un cast di prim’ordine (non solo il già citato Javier Bardem, ma anche Ed Harris, Michelle Pfeiffer e Domhnall Gleeson).