Cerca
Close this search box.

Recensione – Whiplash: quando Arte e talento vengono divorati dall’ossessione

Apertura in anteprima del Sundance Film Festival del 2014, “Whiplash” è il secondo lungometraggio del regista statunitense Damien Chazelle, nonché suo primo grande successo di critica che lo fece avvicinare agli Oscar, per poi raddoppiare il bottino di premi 2 anni dopo con lo straripante “La La Land”.

 

Nato come cortometraggio dalla durata di 16 minuti per mancanza di fondi, “Whiplash” aveva già fatto ampiamente parlare di sé precedentemente alla sua versione estesa proprio grazie al successo ottenuto al Sundance nell’edizione del 2013, che ha permesso di attrarre nuovi investitori (tra cui la Blumhouse Productions) per concedere a Chazelle l’opportunità di farlo diventare un lungometraggio.

 

Di seguito la recensione del secondo film scritto e diritto da Damien Chazelle, il quale ha rievocato nella pellicola sue esperienze personali in una banda jazz molto competitiva al liceo.

 

La Trama di Whiplash, di Damnien Chazelle

Il diciannovenne Andrew Neyman sogna di diventare uno dei migliori batteristi jazz della sua generazione, battendo la feroce concorrenza degli altri talentuosi studenti nel prestigioso conservatorio Shaffer di Manhattan. Forte di un ingombrante ego e consapevole delle sue spiccate capacità musicali, Andrew è deciso ad entrare nella migliore orchestra della scuola, diretta dall’inflessibile e spietato insegnante Terence Fletcher.

 

 

Il rapporto tra i due è già da subito molto elettrico, con Andrew che viene inserito nella band solo come batterista di riserva. Uno smacco per il giovane non indifferente, deciso a prendersi il posto in prima linea dopo aver sacrificato gli altri interessi ed affetti della sua vita e ad aver sottoposto il proprio corpo ad un’ingombrante pressione psicofisica, arrivando all’autolesionismo. A suon di un graffiante jazz, lo scontro tra le due possenti figure si fa sempre più acceso, con il fine ultimo di riuscire a proporre lo spartito perfetto al prossimo festival di jazz. Andrew riuscirà ad imporre il proprio talento, o cadrà sotto i colpi di frusta del suo sergente insegnante?

 

Recensione di Whiplash: il fine giustifica i mezzi?

<<Ero lì per spingere le persone oltre le loro aspettative: era quella la mia assoluta necessità!>>

 

Con un passato da batterista, Damien Chazelle rievoca dolorose esperienze personali vissute al college in una banda jazz infiammata dalla competizione tanto dei suoi componenti quanto del suo direttore. “Whiplash” è l’esasperante sfogo di un regista nelle quali dichiarazioni rivela di aver scritto il film “inizialmente per frustrazione”, mentre cercava di far decollare il prossimo grande musical – decisamente più roseo – con “La La Land” del 2016 (sebbene, soprattutto nel finale, anche quest’ultimo rappresenti il doveroso sacrificio in onore dell’Arte e della naturale salvaguardia del proprio talento e della realizzazione di sé).

 

Un film che parte già esasperante e stressante (ogni termine in tal senso verrà trattato con la sua accezione cinematograficamente positiva) già in sede di produzione, con le riprese che si sono svolte nell’arco di appena 20 giorni per un programma di 14 ore di riprese al giorno. Non “contento”, Chazelle è stato coinvolto anche in un grave incidente automobilistico nella terza settimana di riprese ed è stato ricoverato in ospedale con possibile commozione cerebrale, ma è tornato sul set il giorno successivo per poter terminare il film in tempo. Un vero stacanovista dedito alla produzione artistica che riversa il suo modus operandi anche nella scrittura del suo secondo lungometraggio, per una filmografia che, alla sola età di 38 anni, ha già raggiunto l’Oscar al Miglior Regista e 2 candidature per la Miglior Sceneggiatura (al momento, i suoi 4 film hanno ottenuto complessivamente 7 Premi Oscar, in attesa del prossimo “Babylon“).

 

Ridimensionando la figura del regista in quella del personaggio protagonista, “Whiplash” è sostanzialmente un vero e proprio coming-of-age a colpi di spartito nella crescita e maturazione di un giovane musicista, chiamato a saper fronteggiare l’ambiente in cui sta per inoltrarsi, non tanto nella capacità e nelle abilità delle sue mani, quanto della sua mente. Il talento con le bacchette è infatti al limite della discutibilità, ma ciò che serve ad Andrew è la forza di saper gestire la pressione, l’agonismo, il pericolo di fallire e la consapevolezza che il suo destino non è solo nelle sue mani robotiche, per poter diventare finalmente il migliore. Nella vasca di squali del processo di crescita creativa, il ragazzo punta sul suo talento contando sull’approvazione del proprio mentore: un riconoscimento che, a differenza della violenza psicofisica e dell’annientamento morale, tarderà ad arrivare.

 

 

Il film di Damien Chazelle non parla infatti di musica (anzi, per certi aspetti – soprattutto per lo spirito jazz – potrebbe essere considerato un “anti-musica”, nel scegliere di sacrificare la spensierata passione, il cuore e l’istinto spirituale del suonare ad una meccanica perfezione tecnica), ma si esprime attraverso essa per raccontare la sofferta ed estenuante difesa della propria esistenza. Tutti nascono con almeno un talento primordiale che, qualora non dovesse essere coltivato, farebbe piombare nella mediocrità, nell’omologazione e nella non esistenza. Difendere e coltivare il proprio talento è causa e conseguenza dell’unicità dell’essere umano, specialmente in campo artistico tanto nel cinema quanto nella musica. Una genuina glorificazione del sé che il regista Damien Chazelle vuole rapportare sul grande schermo, partendo da un racconto semi-biografico, per poter dimostrare che il ragazzo ce l’ha fatta!

 

Ma il fine giustifica i mezzi quando, per coltivare le proprie passioni, si finisce col sacrificare i propri affetti e anche la propria integrità fisica e morale? Ovviamente, come specificato anche nelle interviste del regista, “Whiplash” non deve essere preso alla lettera nella sua narrazione “esasperata” (se le mani iniziano a farti male, fermati!), ma sicuramente l’intento di Chazelle è quello di certificare come, soprattutto nell’Arte, si debbano saper prendere determinate decisioni e come lo scendere a compromessi – specialmente quando la passione scivola nell’ossessione – possa risultare spesso doloroso se si vuole raggiungere determinati obiettivi nella propria vita. In “Whiplash” il pensiero del regista di “First Man – il primo uomo” orchestra in modo cinico e spietato (per non ripetere estenuante e frustrante) continui compromessi tra genio e sregolatezza, tra passione e dedizione, per spingersi oltre il limite di essere disposti a perdere tutto in funzione dell’Arte (in tal senso, il prossimo successo del regista statunitense sarà sicuramente più dolce ma non meno amaro e catartico), senza mai dimenticare lo sfogo e la frustrazione personale di Chazelle.

 

Recensione di Whiplash: la rabbiosa sinfonia tra sergente e cadetto

<<Non devi velocizzare. Non devi rallentare. DEVI SOLO RISPETTARE IL MIO FOT***O TEMPO!>>.


In questo gioco al massacro il prezzo del biglietto viene ampiamente ripagato dalla mirabile messa in scena, dalla caparbietà tecnica e non solo. “Whiplash” nasce infatti quando il suo regista deve ancora compiere 30 anni ed è già ben visibile una certa ossessione e dipendenza lavorativa, che inghiotte il tutto in funzione della riuscita di un prodotto geometrico e minuziosamente scandito dal metronomo.


A dir poco sensazionale il montaggio elaborato da Tom Cross (che continuerà a collaborare con successo nei prossimi film di Chazelle, oltra a “No Time to Die” di Cary Fukunaga), così come il comparto sonoro, per una rappresentazione sensoriale che mostra e segue su schermo uno spartito jazz rombante, aggressivo e squillante. Oltre infatti alle candidature per Miglior Film e per la Sceneggiatura Non Originale, “Whiplash” si porta infatti a casa i Premi Oscar rispettivi alle due categorie tecniche, lasciando inaspettatamente all’asciutto quelle per una buona Regia di livello per Chazelle e sopratutto per la fotografia di Sharone Meir, capace di impostare l’ennesimo compromesso (cromatico) tra le tonalità calde e dorate nella rappresentazione del sogno da far diventare realtà, ed il nero dell’oblio e dell’ossessione pronto ad annullare e a spegnere tutte le luci in scena.

 

Dove la libera interpretazione viene surclassata da metodo e dedizione, la categoria che ha poi reso “Whiplash” maggiormente iconico è sicuramente quella dei suoi attori duellanti in scena.
Nell’angolo blu il film registra la miglior interpretazione di uno spavaldo e spregiudicato Miles Teller (“Trafficanti” di Todd Phillips e “Top Gun: Maverick” di Joseph Kosinski) in rampa di lancio: l’attore statunitense dà anima e corpo per una prova sontuosa, sudata e sanguinante. Espresso volere di Chazelle quello che Teller imparasse ad eseguire direttamente i vari brani presenti nella colonna sonora – date le tempistiche e l’applicabilità nelle sequenze un contributo non da poco – oltre al divieto sul set di interromperlo durante le prove con gli strumenti musicali. Il suo assolo nel finale del film è a dir poco incredibile, oltre che potentemente magnetico, ma non arriverà la candidatura all’Oscar.
Nell’angolo rosso il suo sfidante: il Sergente Hartman dalla nera t-shirt attillatissima di J. K. Simmons, nel ruolo che ha consacrato una grande carriera con una prova da brividi. Dopo aver collaborato con grandi registi del calibro dei Fratelli Coen e di Woody Allen oltre, soprattutto, all’iconica interpretazione del personaggio caporedattore di J. Jonah Jameson nei film di “Spiderman”, l’attore e doppiatore statunitense raggiunge infatti l’apice della sua carriera ottenendo l‘Oscar al Miglior Attore non Protagonista proprio per la monumentale e granitica interpretazione del suo spietato personaggio mentore di Terence Fletcher.

 

Voto
4.5/5
Giovanni Urgnani
4.5/5
Bruno Santini
4.5/5
Christian D'Avanzo
4/5
Gabriele Maccauro
4/5
Andrea Boggione
4.5/5
Alessio Minorenti
4.5/5
Andrea Barone
4.5/5