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I film di Paul Thomas Anderson: dal peggiore al migliore

Tutti i film di Paul Thomas Anderson ordinati dal peggiore al migliore in una classifica

Paul Thomas Anderson è uno dei registi più amati dell’epoca contemporanea, essendo un autore simile a Quentin Tarantino nella concezione artistica del cinema. Prettamente postmoderno, il suo approccio è di “altmaniana” memoria, ma la personalità che inserisce nei suoi film è tale da unire con un’alta sensibilità sia il classicismo hollywoodiano che la frenesia e il citazionismo attuali, mettendo in primo piano l’anima di uomini soli e per lo più fuori controllo. PTA ha una lunga carriera cominciata con dei cortometraggi, per poi spostarsi nell’ambito videoclip e contemporaneamente in lungometraggi di finzione e documentaristici. Un’artista a tutto tondo che è anche stato premiato nei Festival e alle Mostre Cinematografiche di tutto il mondo, tra cui Cannes, Venezia, Berlino. Detiene sfortunatamente il record del regista con più nomination agli Oscar senza vittoria, ma ciò fa comprendere quanto riesca comunque ad essere sempre presente e apprezzato. La sua filmografia è composta da nove film; per mettere un ordine alla qualità delle sue opere, ecco una classifica dei film di Paul Thomas Anderson dal peggiore al migliore.

9) Sydney

Opera prima scritta e diretta dal regista per un workshop del Sundance Institute dedicato a giovani autori, nel 1996. Il titolo originale è Hard Eight; pensare che questo film PTA lo ha girato a soli 26 anni, dimostra tutta la sua grandezza. Sydney mostra sin da subito le capacità tecniche di un Anderson ancora acerbo, ma che già predilige i piano sequenza − dove tra tutti spicca quello nell’entrata al casinò − e i pochi stacchi di montaggio; sul piano della scrittura, pur non trovando subito un equilibrio tra l’essere derivativo e innescare meccanismi narrativi originali e autentici, il regista espone il suo interesse per il rapporto padre/mentore-figlio/apprendista. I personaggi di Sydney (Philip Baker Hall) e John (John C. Reilly) incarnano esattamente quanto appena scritto; peccato per una sceneggiatura che si impantana tra il dramma psicologico e il ganster movie, non prendendo mai una propria strada estrosa e pienamente neo noir. Il film è stato presentato nella sezione Un Certain Regard alla 49ª edizione del Festival di Cannes, ed anche al Sundance.

8) Ubriaco d’amore

Quarto film del regista statunitense, distribuito nel 2002 e con protagonista Adam Sandler. Dopo due opere dal ritmo più frenetico, maggiormente cinici e corali, Anderson si rifugia in un’individualità tenera e dolce, anacronistica. Sandler è ben diretto, regalando una performance fuori dai canoni della commedia demenziale a cui ha abituato il suo pubblico; il personaggio che interpreta si chiama Barry ed è un uomo altamente disturbato ed introverso, costantemente sminuito. Il rapporto del protagonista con Lena (Emily Watson) è la chiave di tutto: una patina finemente romantica che travolge lo spettatore per semplicità, estetica e musicalità, con la colonna sonora letteralmente. Quest’ultima, composta da Jon Brion, rende l’atmosfera nevrotica grazie alle pervasive percussioni. La percezione soggettiva di Barry viene messa in primo piano da Anderson, decorando il film con trovate visive inebrianti. Certo, rispetto a quello che ha già fatto e che farà, Ubriaco d’amore appare molto più lineare nella sostanza, ma entusiasmante per gli intenti estetici.

7) Boogie Nights – L’altra Hollywood

Cronologicamente il secondo film, datato 1997, dove Paul Thomas Anderson mostra tutta la sua incredibile capacità di elargire una narrazione dal respiro corale, con cambi di registro e inversioni di rotta ben inseriti soprattutto nella seconda parte. Ispirato alla vita di John Holmes, rielaborando liberamente, Boogie Nights è un ritratto senza scrupoli di una Hollywood anni ’80 (anche se il film parte nel 1977) in preda allo squallore, alla mediocrità, sia nel successo che nel declino di ogni figura vagamente artistica. Gli attori del porno sembrano formare una grande ed unica famiglia, con ambigue relazioni innescate da continui incontri-scontri; la grande capacità di Anderson sta nel trattare questo materiale senza scadere mai nel pornografico, con personaggi umoristici e allo stesso tempo drammatici, legandoli al discorso sopracitato sul successo e sul declino. Per essere solo al secondo film, PTA dimostra grande maestria nel dirigere un cast potentissimo, con Mark Wahlberg protagonista che sfoggia la sua miglior performance attoriale. Il piano sequenza iniziale è un virtuosismo magistralmente compiuto che rimanda al cinema di Altman e Scorsese. Il periodo d’oro dell’industria cinematografica del porno coincide con un periodo storico americano segnato dalla mediocrità.

6) Magnolia

Un’attenta riflessione sull’immagine stessa, al servizio di un cast corale e di una narrazione che interseca diverse storie accomunate dallo stesso filo rosso. Il terzo film di Paul Thomas Anderson, datato 1999, segna un ulteriore passo in avanti per quanto riguarda la qualità del regista, qui in grado di mescolare diversi elementi con grande cognizione. La direzione degli attori, di altissimo livello, come si può notare è una costante nella carriera di PTA; anche per Tom Cruise si potrebbe dire che qui ci si trova di fronte ad una delle sue migliori interpretazioni, anche se probabilmente non supera quella in Eyes Wide Shut. L’intensa commistione di speranza, redenzione e cinismo esasperato drammaticamente con quel pizzico umoristico, rendono altisonante una lunga narrazione di 189 minuti. Ognuna delle nove storie messe in scena dimostra come è possibile vendere ad un pubblico o ad un personaggio interno al film stesso, un’immagine artificiosa della propria identità, nascondendo sotto al tappeto i difetti. Eppure i personaggi si innamorano, tentano di riflettere sulla propria vita, si raccontano e si legano metaforicamente ad un fiore che sboccia, poiché dotati di una consapevolezza diversa rispetto al passato e verso un nuovo futuro. Anderson prendere le distanze, in questo, dal più cinico America Oggi di Altman, che omaggia con la pioggia di rospi

5) The Master

Nel 2012 c’è The Master, film dove PTA riesce ad estremizzare con elegante ricercatezza la lente d’ingrandimento della macchina da presa, che è il mezzo in grado di riflettere sull’animo umano. L’arte mimetica del cinema scava dentro i due protagonisti: Freddy Quell (Joaquin Phoenix) e Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman), due persone agli opposti che incarnano lo spasmodico desiderio di libertà da parte dell’uomo americano. Uno è il saggio, un mentore (padre putativo); l’altro è invece uno spirito perduto da dopo la guerra, non in grado di prendere decisioni autonome e razionali (figlio) con la volontà di voler essere dominato pur di vivere decentemente. L’uno non può esistere senza l’altro, nonostante la diversità: PTA mette insieme un filosofo fondatore di un nascente movimento religioso in grado di guidare con audacia altre persone, con un uomo fragile in pieno disturbo post-traumatico. Il percorso innescato dalla regia è mentale, concentrato sui dettagli, gli sguardi e quegli elementi solitamente secondari, che qui hanno una rilevanza diversa. I due attori sono qui, probabilmente, alla loro miglior performance; ma d’altronde, per chi non vale questo discorso quando è diretto da PTA? Anche la colonna sonora e i suoni diventano narrativi e atmosferici. The Master è una poetica incursione nella psiche umana, dove l’immagine trasuda anarchia recondita

4) Vizio di forma

Paul Thomas Anderson al suo settimo film datato 2014, intitolato in originale Inherent Vice, offre un respiro da noir moderno con tutte le sue caratteristiche derivative dal noir classico  − la compagnia di assicurazioni (La fiamma del peccato) e la trama intricata con il detective protagonista non esente da peccati (Il grande sonno) − unite agli elementi paranoici e per certi versi allucinatori, grotteschi. Il romanzo dal quale il regista attinge è Thomas Pynchon; l’attore protagonista è Joaquin Phoenix. La sceneggiatura è complessa, stratificata e con sottotesti politici legati al capitalismo che è causa di alienazione dell’individuo dalla società. Il detective hippie “Doc” Sportello è un reazionario che tenta di ricucire il passato ormai andato con nostalgia, al presente piuttosto mediocre e incattivito. Attraverso lo sguardo di questo indimenticabile protagonista, sempre deformato da sostanze stupefacenti, lo spettatore è immerso in un mondo psichedelico dove non si conosce la verità, celata da elementi grotteschi come schegge impazzite. Per contrastare questo incredibile nucleo di luci ed ombre, la regia di PTA è geometrica, elegante, ordinata.

3) Licorice Pizza

Ultimo film in ordine cronologico di PTA, Licorice Pizza è stato distribuito in America nel 2021 e in Italia nel 2022. Alana Kane (Alana Haim) e Gary Valentine (Cooper Alexander Hoffman) sono i due protagonisti che sfoggiano due interpretazioni magistrali sotto l’attenta direzione del regista; attraverso di loro e con l’occhio della macchina da presa, Anderson mette al centro del racconto l’incontro fatale tra due giovani per imbastire un discorso sugli Stati Uniti. Il sogno americano è alimentato dal petrolio stando alle regole diegetiche del film, e dunque Anderson unisce due elementi a lui cari per indurre alla riflessione: il materasso è il luogo dove si sogna, ma è alimentato dal capitalista liquido scuro. Non è un caso che è sotto la presidenza Nixon che i materassi non si riescono più a produrre, data la mancanza di petrolio. L’intera coscienza americana viene minata, ma contemporaneamente c’è una stasi perenne nel film, composto da abbracci, corse, sguardi talvolta ingenui e talvolta maliziosi. Il personaggio di Bradley Cooper aggiunge quel grottesco che nel cinema di Anderson è inevitabile, e regala una delle scene più intense e divertenti di tutta l’opera, ossia la retromarcia di Alana con il camion. Quest’ultima, tra parentesi, è ebrea: il regista ci costruisce un ulteriore discorso sulla spaccatura americana. L’enfant prodige è Gary, un quindicenne proiettato nel futuro, mentre Alana è una ragazza di 25 anni che guarda al passato; altra contrapposizione tanto cara al regista.

2) Il Petroliere

Un altro capolavoro di Paul Thomas Anderson: Il Petroliere (titolo originale There Will Be Blood), 2007. Un libero adattamento del romanzo Petrolio! di Upton Sinclair, dove il regista raggiunge un apice di genialità tale da inserire tutto il significato del film nei primi 15 minuti di silenzio: qualcuno muore tra le macerie e un liquido nero fuoriesce mischiato al sangue; l’America scopre il petrolio. Il protagonista interpretato da Daniel Day-Lewis, qui in stato di grazia come costantemente accade nel corso della sua carriera, viene logorato internamente dalla fame di successo, ma soprattutto incarna l’animo corrotto dagli Stati Uniti che vengono tentati dal diavolo denaro perdendo la bussola. Tant’è che il protagonista finisce per rinnegare suo figlio (adottivo) pur amandolo, ma questo sentimento non può trovar spazio di fronte lo spietato capitalismo. PTA psicanalizza ancora la sua nazione contrapponendo i due spiriti cardine della cultura americana: il capitalista Plainview contro l’evangelista Eli Sunday (Paul Dano), entrambi dei dominatori “tossici”. Una cinica narrazione con ascesa e declino del protagonista, mentre c’è tempo per esporre tutti i maggiori aspetti della società occidentale: famiglia, religione, denaro, valore del lavoro. Una parabola composta da sangue, fango e nichilismo, dove le donne non hanno ruolo per lasciare spazio alle narcisistiche figure maschili, troppo piene di sé per amare l’altro. 

1) Il filo nascosto

Uno dei film più belli dell’epoca contemporanea, in grado di parlare con le immagini del cinema allo stato puro, in grado di unire tutte le altre arti insieme con costumi, colonna sonora, suoni, scenografie, per esteriorizzare l’interiorità passando per quel “filo nascosto”, come da titolo, quell’equilibrio dato dai dettagli non visibili in prima battuta. I due protagonisti hanno relazione amorosa, e sia Alma (Vicky Krieps) che Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis) celano un segreto in grado di tenere sempre alta la tensione e la chimica tra di loro. Le immagini riescono a rappresentare, a rendere corporale qualcosa di astratto: un gioco di dominio, di inspiegabile attrazione e di reciproca dipendenza. Il mestiere del protagonista, un rinomato sarto londinese, diventa sfoggio di valori assoluti con le sue creazioni, impregnate di forza metaforica in grado di trasmettere sempre nuove sensazioni e chiavi di lettura allo spettatore con il passare delle visioni. L’ossessione compulsiva per il controllo da parte di Reynolds con il fantasma della madre che lo tormenta, lo rende schiavo psicologico di Alma; la giovane donna è abilmente attenta agli elementi di contorno, e riesce a ritagliarsi un ruolo imprescindibile nella vita del suo amante, anche attraverso i piatti cucinati (simbolo di questo amore-ossessione). PTA parte dal cinema classico con la declinazione della donna rimodellata come in Rebecca e La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock, e richiama finemente Sogno d’amanti di David Lean, per poi dimostrarsi maturo e affascinante in una messa in scena che in alcuni tratti ha anche la deformazione tipica del suo cinema, attraverso la percezione soggettiva di Woodcock alterata dai funghi ingeriti. Miglior sodalizio con Jonny Greenwood, e la dice lunga sulla qualità altissima delle precedenti.