Articolo pubblicato il 19 Novembre 2022 da Bruno Santini
Girato a Londra nella primavera 2021, in pieno chiusura forzata dei teatri ed hotel per via della normativa anti-COVID; Omicidio nel West End, titolo scelto dalla produzione italiana al posto di “See How They Run”, uno dei distici che compone la ninnananna “Three Blind Mice”, dalla quale Agatha Christie trasse ispirazione per il suo racconto breve, da cui tirò fuori la trasposizione teatrale “Trappola per Topi”, rappresentata in modo ininterrotto sino ad oggi sui palcoscenici londinesi, fin dal suo debutto nel lontano 6 Novembre 1952. L’opera approda sui grandi schermi italiani il 29 Settembre 2022, tre settimane dopo l’uscita in Inghilterra, segna il debutto cinematografico del regista Tom George e dello sceneggiatore Marck Chappell, entrambi provenienti dalla televisione, che si avvalgono delle interpretazioni impeccabili di Sam Rockwell e Saoirse Ronan.
La trama di Omicidio nel West End di Tom George
Al fine di offrire una prospettiva di recensione a proposito del primo film di Tom George, si vuole iniziare con la trama di Omicidio nel West End. Il film è ambientato nel West End di Londra nel 1953. I piani per una versione cinematografica di un’opera teatrale di successo subiscono un brusco arresto dopo l’omicidio del regista incaricato di tale compito, Leo Kopernick (Adrien Brody).
Il caso viene affidato all’ispettore Stoppard (Sam Rockwell) ed alla zelante recluta Constable Stalker (Saoirse Ronan), che prendono in mano l’indagine. I due si trovano coinvolti in un enigmatico giallo all’interno del sordido e affascinante mondo dietro le quinte del teatro, indagando sul misterioso omicidio a loro rischio e pericolo.e

Recensione di Omicidio nel West End: non saltare a conclusioni affrettate
“I gialli, visto uno, visti tutti”, così parte la scettica voce narrante iniziale, del regista Leo Kopernick, in merito al suo scetticismo sull’effettiva qualità artistica dell’opera teatrale Trappola per Topi (cosa condivisa anche da chi scrive), ma il successo enorme di pubblico (siamo alla centesima replica, dal suo debutto), impone di mettere da parte ogni preconcetto e piegarsi ad una trasposizione cinematografica, per generare altri quattrini.
Ma la fine è il principio di tutto, con un ribaltamento di prospettiva, la conclusione a cui era giunto lo spettatore in merito alla sola finalità informativa di tale espediente cinematografico, in realtà rivela echi alla Viale del Tramonto (1950), così che in realtà si scopre, come la lunga narrazione iniziale, altro non sia che una divagazione post-mortem da parte di Kopernick, la cui uccisione dà il via al giallo.
Non saltare a conclusioni affrettate quindi, istinto presente in ogni amante del buon giallo classico, ansioso di trovare soluzioni celeri all’irrazionalità di un avvenimento come l’omicidio.
L’identificazione con la giovanile agente Stalker (di nome e di fatto), ultra-cinefila, logorroica, goffa nelle gag ed irruenta nelle soluzioni proposte, risulta immediata da parte dello spettatore cinematografico, che gradirà ovviamente meno l’ispettore Stoppard, più stereotipato, stropicciato, alcolizzato ma riflessivo nel condurre le indagini.
Un film che narra una storia di finzione, ma con continui rimandi ai gialli di Agatha Christie, più di tutti Trappola per Topi ovviamente, omaggiati in una chiave di affettuosa parodia, che sfrutta personaggi realmente esistiti inseriti in una trama inventata; Richard Attenborough (Harris Dickinson), che impersonò l’ispettore protagonista nello spettacolo teatrale, nonché l’apparizione della stessa Agatha Christie, protagonista di una meditazione intrigante, in merito alla necessità di una scrittrice di appropriarsi di una realtà, che per quanto dolorosa, comunque può essere filtrata secondo la propria sensibilità autoriale, per quanto nel caso della scrittrice inglese, la componente serial-industriale sia stata sempre predominante.
La miscela tra giallo classico e commedia intrinsecamente british, costruisce un pastiche frizzante, nel rendere realtà cinematografica, ciò che i creativi avevano teorizzato nella finzione, ma la narrazione nel suo dipanarsi inciampa spesso nel ritmo e nella soluzioni stilistiche.

Omicidio nel West End: i limiti nella regia di Tom George e l’ispirazione a Wes Anderson
La regia di Tom George giunge ad estremizzare inutilmente delle scelte registiche come la reiterazione dello split screen, cercando nella messa in scena una simmetria, mirante a rifarsi al cinema di Wes Anderson, senza averne la maturità necessaria, mostrando gli stessi difetti, amabilmente presi giro alla sua protagonista.
L’agente Stalker, con fare ossessivo segna tutto sul proprio taccuino, un vero e proprio registro della realtà, ma un giallo non trova la propria risoluzione mettendo assieme un insieme di dati, necessitando di un ragionamento deduttivo per dare una forma concreta ai vari indizi e giungere così alla verità dei fatti. Questa discrasia Stalker-Stoppard, si riverbera su una trama investigativa persa eccessivamente in sé stessa, complice un poco approfondimento generale che mira ad arrivare in fretta al finale – come la sua protagonista -, a scapito di un intreccio abbastanza macchinoso, come del resto sono quasi tutti i personaggi, obbligando i due protagonisti agli straordinari; sfasato quanto straniato nel costruire il suo ispettore tramite la recitazione da parte di Rockwell, mentre Ronan aggiunge un’interpretazione impeccabilmente sbarazzina, senza diventare mai bozzettistica, al suo curriculum, confermandosi ancora una volta la migliore attrice sotto i 30 anni del cinema anglo-americano.
L’eccesso di politicamente corretto all’interno del primo film di Tom George
Intrattenimento leggerino, che decide di non andare in pericolosi quanto stantii territori meta-cinematografici, ma avrebbe dovuto sicuramente credere più in sé stesso, dovendo inoltre rimproverare ad esso un eccesso di politicamente corretto. Passi lo sceneggiatore di colore (seppur in un contesto inglese come quello anni 50’ estremamente razzista), nonché un’amante di colore in tempi dove le unioni miste in tale contesto sociale erano più che fantascientifiche, però ancora peggiore, rimane il far passare sotto gli occhi del duo Stalker-Stoppard, una relazione omosessuale, reato punibile penalmente a quei tempi (lo sarà fino alla fine degli anni 60’) e che due agenti come loro avrebbero dovuto rilevare.
Dare spazio alle minoranze, rendendo il cinema più inclusivo, risulta cosa buona e giusta dopo anni di discriminazione ai loro danni, ma falsare la storia non è un segno di progressismo, quanto la negazione perentoria di ciò che il passato è stato.