Correva l’anno 1956, il regista Don Siegel, con già molti film all’attivo ma prima della sua definitiva consacrazione come uno dei principali registi americani di cinema d’azione degli anni 60’/70’, si dedica alla realizzazione di un piccolo B-Movie a basso budget, di quelli fatti per essere proiettati in coppia al costo di un solo biglietto. Quel film è “Invasione degli ultracorpi” e, malgrado una prima accoglienza tiepida, finirà col tempo per diventare uno dei film più influenti, ricordati e riproposti della storia della fantascienza.
Tratto dall’omonimo romanzo di Jack Finney e con, tra gli altri, il grande Sam Peckinpah alla sceneggiatura (sebbene non accreditato) il film racconta, in un lungo Flashback, la storia del dottor Miles J. Bennell che, giunto alla piccola città di Santa Mira, si trova a dover fare i conti con una serie di pazienti affetti dalla sindrome di Capgras, una malattia psichiatrica che li porta ad essere convinti che i propri parenti siano stati sostituiti da degli impostori identici a loro. Indagando sulla cosa assieme ad una vecchia fiamma, Becky Driscoll, il dottore si troverà di fronte ad una sconvolgente verità, i racconti dei suoi pazienti sono realtà e la cittadina è sotto attacco di una razza aliena che durante il sonno sostituisce le persone con dei duplicati perfetti ma completamente privi di emozioni. Miles e Becky, senza potersi fidare di nessuno e con la paura di addormentarsi, dovranno cercare di fuggire per allertare il mondo prima che sia troppo tardi.
In un periodo in cui Hollywood guardava sempre più alle grandi produzioni e allo sfoggio di costosi effetti speciali per ammaliare il pubblico, Don Siegel, vuoi anche per motivi di budget, realizza un film di fantascienza dalle forti tinte Horror e Thriller che ne è quasi totalmente privo, fatta eccezione per i baccelli da cui escono i replicanti alieni. Tutta l’impalcatura del film si regge sulla recitazione, la regia, la fotografia e su una costruzione della tensione quasi Hitchcockiana. Siegel muove la macchina da presa con maestria, da posizioni insolite e disturbanti, fa uso di inquadrature strette sui volti e soggetiive, lavora molto sulla suspence e sulla costruzione di atmosfere sinistre e angosciose.
Le prove attoriali dei due protagonisti, Kevin McCarthy e Dana Wynter sono tutt’altro che da B-Movie e i comprimari non sono da meno.
Tutto ciò, compresa l’assenza di effetti speciali che inevitabilmente sarebbero invecchiati, contribuisce alla longevità dell’opera rendendola perfettamente fruibile ancora oggi, tanto che, spesso, ci ritroveremo a guardare la pagina Wikipedia per capire se sia veramente un film del 1956.
Quella de “Invasione degli ultracopri” è una storia semplice, quasi banale, ma che per questo arriva subito al punto e si presta a facili immedesimazioni e interpretazioni. Non a caso negli anni i critici riusciranno a vederci sia una visione anticomunista che antimaccartista.
Su questo Siegel non si sbilancerà mai, dicendo di non aver mai pensato ad una accezione politica, ma in un periodo in cui da entrambe le parti si puntava ad assoggettare il popolo ad un pensiero unico il rimando è più che evidente. Come è evidente, del resto, la critica, alla modernità che genera conformismo e disumanizzazione e come vi si può anche leggere una velata critica alla classe media americana, quella che, vista dall’esterno è pulita ed educata ma che, nelle proprie cantine, nasconde oscuri segreti.
“Invasione degli ultracorpi” è un’opera senza tempo che non a caso negli anni darà vita a ben tre remake e avrà influenza su innumerevoli pellicole e registi. Un’opera che merita di essere riscoperta, attuale ancora oggi e da cui ogni generazione può ricavare profondi spunti di riflessione.