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Intolerance: La culla del cinema

Vituperato, infamato e forzatamente relegato in un angolo buio della storia da parte del moderno regime del politicamente corretto a causa del contenuto revisionista e razzista di Nascita di una Nazione (1915), il nome di David Wark Griffith ne è uscito indubbiamente intaccato nella fama, seppur gli vada assolutamente riconosciuto il merito di aver inventato il concetto moderno di film; compiendo le innovazioni tecniche nel montaggio, storytelling ed inquadrature.
Tutte componenti necessarie a far sì che il cinema non fosse concepito più come mera attrazione, ma un’arte pienamente consapevole di sè stessa, con un proprio linguaggio narrativo unico, originale e soprattutto differente dalle altre forme artistiche.
Se in Nascita di una Nazione, purtroppo il lato artistico si scontra con una visione pro-razzismo imbarazzante per l’epoca – le proteste furono vivaci anche alla sua uscita secondo le cronache – come oggi, precludendogli lo status di capolavoro assoluto, con Intolerance (1916), pure i detrattori sono costretti a togliersi il cappello, ammirando in silenziosa contemplazione la monumentale arte cinematografica del genio immane di Griffith.
Su Intolerance c’è una letteratura sterminata, d’altronde su opere così storicizzate c’è poco da dire a livello di critica “amatoriale” su un blog di internet, se ne parla giusto per intenti divulgativo-conoscitivi, incitando però il lettore a recuperare il volumetto del castoro extra-large dedicato al cineasta, scritto dal critico di Segno Cinema Paolo Cherchi Usai nel 2008, nonché l’acquisto Home Video della versione restaurata, pubblicata qui in Italia da parte della CG Entertainement; uno spettacolo visivo assoluto – specie nell’episodio di Babilonia -, con ricchi contenuti speciali e della durata di 160 minuti – ma in giro vi sono versioni con fino a mezz’ora in più di durata o quaranta minuti in meno -.
Liquidato da alcuni critici anglofoni, come pellicola “riparatoria” nei confronti del messaggio razzista di Nascita di una Nazione, Griffith in realtà nella sua avanguardistica mente, concepì tale progetto anni addietro, girando tra il 1913 ed il 1914 il nucleo centrale della pellicola, l’episodio ambientato nella contemporaneità (dell’epoca ovviamente) intitolato “La madre e la legge”; un melodramma a sfondo sociale tipico della produzione del regista, che se era un razzista, si dimostrava invece molto avanti per l’epoca in merito ai diritti delle donne e dei lavoratori, mostrando un certo sdegno nei confronti della pena capitale, il cui patibolo per le esecuzioni, viene filtrato in una luce estremamente tetra da parte del cineasta.

Il successo senza precedenti di Nascita di una Nazione, fece ottenere al cineasta più fondi per girare ulteriori scene e produrre l’episodio babilonese, un kolossal di monumentale sfarzo e potenza visiva, che nello splendore dell’alta definizione, rende appieno la potenza del nascente cinema industriale hollywoodiano, portando all’apice il concetto di barocchismo estetico tramite movimenti di macchina, la giustapposizione degli elementi della messa in scena – su tutti il primo piano del sacerdote e la finestra a sinistra, che mostra lo sfondo lontano di Babilonia -, l’audace lussuria delle vestali ed uno dei primo usi rudimentali della profondità di campo per abbagliare gli occhi dello spettatore, che anche dopo oltre un secolo dall’uscita del film – comparate la Babilonia di Griffith con quella di Oliver Stone in Alexander (2004), a confronto quest’ultima ne esce ridimensionata non di poco -, non potrà che restarne ammaliato, conscio di come sia impossibile vedere al giorno d’oggi una tale ricostruzione scenografica, non solo perchè il genere è fuori moda, ma anche per il fatto che una tale messa in scena, richiederebbe un budget così assurdo, da dover ripiegare su un banale green screen negli sfondi e tanti saluti.
Tutte le maestranze pensavano quindi, che Griffith stesse girando dei film differenti, incapaci nelle loro menti limitate, di scorgere il disegno di un genio visionario, capace di fare l’impossibile; prendere ben quattro episodi ambientati in contesti storici differenti (il presente contemporaneo, la caduta di Babilonia del 539 A.C., la crocifissione di Gesù ed il massacro degli Ugonotti del 1572), utilizzando un montaggio parallelo, per unificare il tutto attraverso l’emblematica scena cardine, di una donna (Lillian Gish) nell’atto di far dondolare una culla, con tre figure sullo sfondo, probabilmente le tre Parche che detengono tra le mani il filo del destino di ciascun uomo, perchè il protagonista di Intolerance, non è l’individuo, ma la storia.

La donna con la culla è l’elemento simbolico che trasforma Intolerance in un’opera di poesia a detta di Griffith stesso – differenziandosi dalla prosa della sua precedente opera -, una metafora dello scorrere del tempo attraverso varie generazioni, vittime dell’odio scaturito dall’intolleranza nei vari periodi storici, cercando di contrastare la furia distruttiva di essa, tramite un contraltare positivo; l’amore, il più puro dei sentimenti che può provare l’essere umano.
D’altronde nulla è più duraturo e potente dell’amore che una madre nutre verso il proprio figlio, un istinto materno sviluppatasi insieme all’odio attraverso numerose generazioni, tanto da essere parte del DNA umano. 
Non tutti gli episodi sono ovviamente al medesimo livello, il primo, la madre e la legge è quello puramente griffithiano, un segmento narrativo che funge da apertura e chiusura della pellicola, in cui il trasporto emotivo del cineasta si sente in ogni singolo frame, intriso di una potenza emotiva molto forte, da rendere lampante la scelta del perchè privare i protagonisti di tale spezzone narrativo e dei successivi, dei nomi a favore di perifrasi, in modo da renderli protagonisti di vicende e sentimenti di natura universale.
L’episodio babilonese si rifà in parte al cinema epico italiano sullo stile di Cabiria di Giovanni Pastrone (1914), ma realizzato tramite l’enorme apparato tecnico-monetario hollywoodiano, in modo che ancora oggi dopo oltre un secolo, risulti essere ancora il segmento migliore di tutta l’opera, per potenza ed impatto visivo, dove però la cornice non soffoca il quadro, grazie alla figura della ragazza di montagna (Costance Talmadge), atta a regalare momenti di comicità con il suo carattere ribelle, mettendo in scena tramite una luce tragicomica la condizione femminile nell’epoca antica, così che l’imponente affresco vitale della civiltà babilonese, non soccomba mai innanzi al gigantismo scenografico.

Miracolo, che purtroppo a Griffith non riesce con l’episodio riguardante alcuni miracoli e la passione di Gesù, che colpisce molto meno di quanto dovrebbe, perchè nonostante risulti essere quello con maggiori legami con il tema dell’intolleranza, paga il fatto che opere con tale figura, successivamente ne sono state fatte di migliori, senza trascurare che il gigantismo voluto dal regista, mal si leghi con un tema intimo come la fede; mentre il quarto episodio, incentrato sul massacro degli Ugonotti nel 1587, ha un impianto strutturale un pò troppo da film in costume con venature teatrali, ma comunque vivacizzato da varie sequenze dove si mette in chiaro come certi elementi del popolo, siano vittime delle macchinazioni politiche dei grandi personaggi della storia, pronti a sfruttare le lotte religiose, per rafforzare il loro potere.
L’esplosione nei minuti finali, dove le varie scene si legano tra di loro in modo sempre più incalzante – il treno in corsa su tutti -, sfruttando la distruzione portata dall’intolleranza – la presa di Babilonia da parte di Ciro il Grande, il massacro della notte di San Bartolomeo e la crocifissione di Cristo -, per aprirsi alla speranza di una risoluzione positiva, solo nell’episodio del presente, confidando in un’utopia di pace ed amore, che distrugga le barriere ed incomprensioni tra gli uomini, ma destinata a naufragare con l’ingresso degli USA nella Prima Guerra Mondiale.
Costato 385.000 dollari (1/3 del budget solo per l’episodio di Babilonia), l’opera non fu il flop ai botteghini che si dice in giro, guadagnando circa 1 milione di dollari, molto meno di Nascita di una Nazione, che indubbiamente era una pellicola molto più fruibile; ma Intolerance deve essere considerato un film di pura avanguardia per l’epoca come oggi, che per via delle sue innovazioni tecnico-narrative, mise effettivamente in difficoltà lo spettatore medio americano, nonché la critica dell’epoca, molto fredda nei confronti della struttura narrativa giudicata macchinosa, oltre che perplessa dal messaggio pacifista in pieno fermento da Prima Guerra Mondiale, ma il tempo gli darà lo spazio meritato nella storia del cinema, come primo vero capolavoro assoluto filmico della settima arte.