Articolo pubblicato il 20 Marzo 2023 da Alessio Minorenti
Approderà sugli schermi di tutto il mondo la prossima settimana “Elvis”, l’ultima pellicola diretta da Baz Luhrmann (“Moulin Rouge!”, “Australia” e “Romeo+Juliet”) e che vedrà la leggendaria figura di Elvis Presley incarnata da Austin Butler. Il film, costato 85 milioni, si apre con una sequenza che toglie il fiato. Una regia ipercinetica accompagnata da un montaggio frenetico, zoom, carrellate e split screen apre il sipario sullo scintillante e sempre decadente scenario di Las Vegas dove il Colonnello Tom Parker (interpretato da un mefistofelico Tom Hanks, sempre eccezionale) ci promette di spiegare a fondo e in modo definitivo le cause che hanno portato alla prematura dipartita di Elvis, anticipando anche come alla fine del suo resoconto tutti noi, dice rompendo la quarta parete, lo scagioneremo dalle accuse che gli sono state mosse contro.

A seguito di questa introduzione inizia un’opera che è destinata a dividere e a far discutere a lungo, infatti Luhrmann propone la sua visione di quello che noi siamo abituati ad aver codificato come il classico biopic riguardo le star della musica rock. Lo stile è barocco, eccessivo, squilibrato, avvolgente e respingente al tempo stesso, il melodramma è a tratti pacchiano e mieloso, tutto è estremamente laccato (come un make-up eccessivamente elaborato), non vi è mai una ricerca del senso della misura e sembra quasi che il grande schermo sia insufficiente a un’opera che si propone come tambureggiante e rutilante flusso di immagini patinate. Bisogna dunque riconoscere di base a questa pellicola una sua dignità artistica e una sua variazione sul tema sicuramente da tenere in considerazione, vista l’omologazione con la quale storie del genere vengono spesso affrontate. Questo però non è sufficiente a un film che, se da una parte tenta di approcciare una materia trita e ritrita con un piglio nuovo, dall’altra resta ingabbiato piuttosto pigramente all’interno di tutti i cliché che accompagnano questi biopic su grandi cantanti, troviamo anche qui infatti il villain della vicenda (come se ormai questo ruolo fosse condizione sine qua non in un biopic musicale) dal produttore, scarsa complessità emotiva, costruzione approssimativa dei momenti clue (tutto è narrato con lo stesso ritmo), finale redenzione del protagonista (sempre vittima e mai carnefice) e l’immancabile carrellata conclusiva di immagini di repertorio a dimostrazione di come il lavoro mimetico compiuto dal protagonista sia andato a buon fine(e a beneficio dell’Accademy solita apprezzare tale espedienti).
La duplicità di questa pellicola risiede dunque nel voler rimodellare una materia vecchia con strumenti nuovi senza però cambiarne il contenuto.

Il film propone un flusso ininterrotto di stimoli sensoriali di ogni natura e l’accompagnamento musicale molte volte si sostituisce alla narrazione stessa accentuando ancor di più il carattere ipertrofico di questa operazione. A partire infatti dalla lunga durata il film sembra non voler mai scendere a patti o cercare una via di mezzo, quasi che l’anima di Elvis più che essere racchiusa nell’interpretazione del suo protagonista sia rappresentata dal martellante e pomposo incedere delle immagini e dei suoni sullo schermo. In tal senso Gianni Canova, nel suo saggio “L’alieno e il pipistrello”, all’interno di una più ampia riflessione riguardo il cinema postmoderno individua una tipologia di opere da lui definite “film-concerto” e a tal proposito scrive: “Il film-concerto rovescia la tradizionale gerarchia fra suono e immagine e produce un vero e proprio effetto bagno: dà allo spettatore la sensazione di essere immerso in un magma i cui suoni toccano direttamente, come l’acqua del bagno e perfino in modo più intrusivo, il suo intero corpo. Non c’è più distanza, tra il film e lo spettatore: dalla comunicazione (che implica l’esistenza di due poli separati) si passa alla fusione. Al “bagno” di sensazioni. Vedere significa immergersi.” Non esistono parole migliori per descrivere cosa ci si troverà di fronte assistendo ad una proiezione di “Elvis”: si verrà aggrediti da un caleidoscopio di luci e colori, spesso anche pacchianamente accostati, e si arriverà a fine visione percependo forse di aver più sentito e subito un’opera piuttosto che averla fruita. Il film è ovviamente anche al passo con la contemporaneità e tratteggia dunque gli Stati Uniti a cavallo tra gli anni Cinquanta e Settanta con grande durezza e probabilmente la parte più riuscita della pellicola riguarda il rapporto di Elvis con il pubblico femminile che, rappresentato in preda quasi a un febbrile delirio religioso piuttosto che in estasi per l’esibizione di un cantante, reagisce fisicamente alle sue performance rendendo a schermo efficaciemente il modo in cui l’erotismo fosse parte fondante della figura di questo leggendario cantante.
Luci e ombre accompagnano dunque questo film che per la sua radicalità e per il soggetto che tratta è sicuramente destinato a creare dibattito, il che nel panorama del cinema d’intrattenimento contemporaneo può essere considerato già un risultato.