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La Dolce Vita: il fascino e la banalità dell’immaginario

Negli anni ’50 il cinema italiano attraversa un periodo di straordinaria fortuna, dovuta anche al fatto che gli americani non potevano riportare in patria gli incassi fatti in Italia con i loro film, ma erano obbligati a reinvestirli nel nostro paese. Approfittando anche del basso costo delle comparse, le grandi case di produzione hollywoodiane realizzarono a Roma, negli studi di Cinecittà, alcuni kolossal (Cleopatra di Mankiewicz, 1963). Ci troviamo nel periodo della cosiddetta Hollywood sul Tevere, quando anche i divi americani venivano a lavorare a Roma. La dolce vita descrive appunto questo mondo di lusso estremo, frivolo, vuoto ma straordinariamente affascinante, usando un personaggio-guida, un giornalista di rotocalchi alla moda: Marcello (Marcello Mastroianni), con al seguito il suo fotografo a cui si riferirà chiamandolo Paparazzo, ci conducono attraverso le varie stazioni di questo inferno-paradiso, ed in tal senso non mancheranno riferimenti alla fede religiosa.

Il film inizia con un elicottero che trasporta sulla città eterna una grande statua di Cristo, amara parodia del ritorno di Dio in un mondo che non lo riconoscerebbe più. A cui segue subito una scena di un ballerino travestito da idolo orientale in un locale notturno romano. E in effetti quest’opera è stata paragonata a una nuova e moderna via crucis, oppure a una discesa all’inferno, una moderna Commedia dantesca. La dolce vita è diviso in sette grandi stazioni, che sono anche sette lunghe notti di piacere e di dolore: 1) la notte di Marcello e Maddalena, una ricca, bella donna, che allo stesso tempo si sente sola ed inutile, con la quale per provare nuove emozioni, il giornalista fa l’amore nella stamberga di una povera prostituta; 2) la notte con Silvia, la diva Hollywoodiana (Anita Ekberg) che atterrerà dall’aereo discendendo dal cielo, ed il bagno nella fontana di Trevi; 3) i bambini che vedono la Madonna, il fanatismo religioso e il grande spettacolo costruito intorno dai mass-media; 4) la serata in casa di Steiner, l’intellettuale di sinistra debole e incapace di trovare nuove prospettive; 5) la visita del padre che scappa al termine di un’altra notte di baldorie, forse deluso dal figlio o soffocato dai ricordi; 6) un’altra festa in mezzo a un’aristocrazia corrotta e insulsa; 7) infine l’ultima grande notte di noia in cui dopo una serie di giochi, uno più deprimente dell’altro, la comitiva dei gaudenti sempre annoiati, di cui Marcello è animatore, si spinge sulla riva del mare per guardare un animale mostruoso che è stato sbattuto sulla spiaggia, un pesce deforme ai limiti del grottesco, ulteriore metafora della cristianità rigettata (per i primi cristiani il pesce simboleggiava Gesù Cristo). A metà del film Marcello, nella sua affannata corsa verso il nulla, un nulla pieno di lusso, carezze e lusinghe, incontra per caso Paola, una ragazzina povera e semplice, che lavora onestamente in una trattoria di mare. Nell’ultima scena Marcello rivede Paola, simbolo di una possibile salvezza dal gorgo affascinante ma angosciante in cui si trova. A separarli c’è un canale melmoso, non a caso, lei gli parla da lontano ma lui non riesce a sentire e a capire perché ormai troppo lontano dalla vita comune (il gesto malinconico che Marcello fa con le mani dice tutto).

Questa grande macchina spettacolare e anche anti-spettacolare costruita da Fellini distrugge miti e li ricostruisce nello stesso tempo, descrive con magnifica precisione il fascino e la banalità dell’immaginario. Forse è il più grande affresco della storia del cinema, un esempio di come mostrare piuttosto che narrare. Di fatto il formato panoramico diventa un vero e proprio strumento di stile per mettere in scena un mondo intero e una quantità innumerevole di personaggi di contorno con le loro grandezze e le loro miserie, il loro fascino e il loro squallore. Si potrebbe riassumere il tutto nella scena in cui il vecchio comico Polidor, con i palloncini che seguono per incantesimo il suono della sua tromba, rievoca la magia dell’infanzia e del vecchio cinema in un mondo di persone ricche, aride e sole. L’occhio amaro e tenero di Fellini non perdona nessuno e non condanna nessuno.

Il bello è brutto e il brutto è bello