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“La finestra sul cortile”: apoteosi della soggettiva

Torna la rubrica de #IClassici di Quart4 Parete ancora con Alfred Hitchcock. Questa volta è il turno di “La finestra sul cortile”, 1954. James Stewart e Grace Kelly protagonisti di un’opera importantissima per il sapiente utilizzo con cui il maestro sfrutta la macchina da presa in quanto cinema.

Una lunga e lenta panoramica con carrello parte dal volto sudato di un uomo su di una carrozzella (James Stewart), scorre sulla sua gamba ingessata, gira intorno per la stanza: vediamo sul tavolo un apparecchio fotografico rotto, un pacco di riviste di moda, le fotografie di automobili da corsa incendiate, appese alla parete. Siamo in casa di Jeff, fotografo di professione, che ha avuto un incidente sul lavoro. Fuori fa un caldo terribile, ed un’altra panoramica, sulla corte del grande edificio, ci mostra i vari vicini intendi ciascuno alla propria vita: un musicista povero, una ballerina che si esercita, una signora a letto malata che si lamenta sempre, una donna sola e non più giovane e altre scene di vita quotidiana. Costretto a rimanere immobile da quattro settimane, Jeff osserva giorno e notte la vita del cortile, e una notte sospetta che un vicino, mister Thorwald, il marito della signora malata, abbia ucciso proprio la moglie. Anche noi, con gli occhi e con il teleobiettivo di Jeff, lo vediamo mentre compie strane manovre. L’osservazione continua, mentre Jeff cerca inutilmente di persuadere la sua fidanzata Lisa (Grace Kelly), un’indossatrice del bel mondo che lo assiste con amore, e un amico detective, ma questi non gli credono. Alla fine, con l’aiuto di Lisa che va a compiere una perquisizione nell’appartamento di fronte, riuscirà a dimostrare che le sue supposizioni erano esatte, ma pagherà con un’altra gamba rotta.

Apoteosi della soggettiva, che viene qui elaborata in molte versioni (panoramica alla finestra, effetto cannocchiale, raccordo sull’asse, zoom avanti, con o senza la cornice della finestra), questo capolavoro hitchcockiano è un poliziesco, ma è, anche se non lo dichiara, un vero e proprio trattato sull’atto del guardare e dello spiare, una serie di variazioni sul ruolo e sulla posizione dello spettatore davanti allo schermo cinematografico. Anche lo spettatore è immobilizzato sulla sua poltroncina in sala (o sul divano a casa ormai) come Jeff sta sulla sua carrozzella. Come il protagonista è costretto a guardare una serie di indizi lontani e parziali, a elaborare ipotesi, formulare giudizi, collegare alcuni elementi separati, costruirsi un’idea sui personaggi che compaiono e scompaiono sullo schermo-finestra del cinema, giocando così anche con la percezione di chi guarda, instillando il dubbio sulla veridicità degli eventi poiché filtrati dallo sguardo di Jeff (“è davvero così, oppure è solo nella sua testa?” Ci si chiede). Infatti anche lo spettatore, come Jeff, formula le sue domande e risposte, riempiendo i vuoti che stanno fra una scena e l’altra con le sue supposizioni. La soggettiva diventa quindi il simbolo del lavoro compiuto dallo spettatore: come Jeff guarda la vita del cortile, così noi guardiamo il film. Il racconto classico, non a caso, è fondato sulla cosiddetta “illusione di realtà”, la quale non è altro che un effetto-finestra, come se tutto quello che vediamo sullo schermo accadesse veramente, nella casa o nel cortile di fronte, e noi fossimo lì, a decifrare i frammenti di vita che ci riesce di catturare attraverso i vetri. Ma non per questo la narrazione perde il suo ritmo intenso, poiché la suspance non viene mai meno. Siamo davanti ad un’opera perfettamente classica, che nello stesso tempo racconta una storia e parla dell’atto di raccontare.

Prima facevamo riferimento ai diversi utilizzi della soggettiva e di seguito riportiamo alcuni esempi: in primis c’è lo sguardo pilotato, una variante della soggettiva che diventa metafora del cinema, attraverso il cannocchiale lo spettatore è invitato a identificarsi con lo sguardo di Jeff. Di fatto, il voyeurismo è uno degli elementi costitutivi del mezzo cinematografico sin dalle sue origini. Successivamente abbiamo anche lo sguardo in macchina, con Jeff che si gira e vede Lisa che lo sta guardando, ma la seconda inquadratura della soggettiva contiene una trasgressione, ossia Lisa che guardando Jeff, guarda dentro la macchina da presa, verso di noi, invitandoci ad identificarci con Jeff. Infine, è presente lo sguardo attraverso il pertugio, in cui la MDP (macchina da presa) trascinata dal guardare del protagonista, inquadra solo uno stretto passaggio fra i due palazzi, quanto basta per non fa capire (ed ecco la suspance che si infittisce).

“La finestra sul cortile”, in conclusione, è nello stesso tempo un giallo tradizionale, ma anche un film-saggio che ci spiega e ci illustra i meccanismi del cinema stesso. D’altronde non poteva che venire dalla brillante mente di un autore che assume lo stile classico hollywoodiano facendone una simulazione: dietro un finto predominio della narrazione i movimenti di macchina, le luci e le ombre dell’inquadratura, i punti di vista sbagliati costruiscono situazioni di incertezza continua, che smentiscono la leggibilità del racconto classico e soprattutto abbassano la priorità dell’azione rispetto all’importanza dello sguardo (vedasi anche “Il Sospetto”: https://quartaparetenet.wordpress.com/2022/02/06/il-sospetto-percezione-o-realta/).

Christian D’Avanzo