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“Quarto Potere”: eterno Orson Welles

Un’altra opera fondamentale per la storia del cinema e che dobbiamo assolutamente affrontare nella nostra rubrica #IClassici, è “Quarto Potere” di Orson Welles.

Ma partiamo contestualizzando. I primi anni ’40 sono ancora segnati dal cinema classica, e se Ford rappresenta un caso limite che sta dentro il sistema con molta fatica, un altro regista, Orson Welles, che amava considerarsi un suo discepolo, verrà decisamente sbattuto fuori. Quello di Welles infatti è il primo grande caso di rottura dell’illusione di realtà. Con la sua opera il cinema e i suoi codici ritornano in
primo piano con inaudita prepotenza, e le storie sono quasi pretesti per mostrare immagini di straordinaria violenza, in cui è visibile l’influenza dello stile espressionista tedesco, con contre-plongée e grandangoli (riprese dal basso ed un effetto volti a distorcere le figure in scena, anche per evidenziare la grandezza e perché no, la non curanza per le cose che lo circondano, del nostro Kane) ed una fotografia in bianco e nero pronta a giocare con i chiaroscuri, le ombre, servendosi della luce LowKey, ossia dal basso, tipica del genere noir. La comparsa di Welles sulla scena del cinema fu quella di un ragazzo prodigio trasformato immediatamente in autore maledetto, poiché il suo nome, prima osannato e pochi anni dopo evitato come una peste, da simbolo di genialità e di successo presto divenne simbolo di spreco e rovina. Nel 1939 il giovane Welles aveva sconvolto l’America con una trasmissione radiofonica, “La guerra
dei mondi”, tratta dal romanzo di Herbert George Wells. La novità stava nel raccontare l’arrivo dei marziani sulla terra come se fosse vera cronaca, inserendo in un comune programma musicale alcuni falsi annunci da cui sembrava che veramente gli alieni stessero distruggendo la terra, destando panico sul territorio (New Jersey in particolare) a tal punto che in molti lasciarono la città per la campagna, le case si svuotavano e le chiese si riempivano, la gente alzava invocazioni e si lacerava gli abiti per strada. Questo programma gli fruttò grande fama e un contratto per un film con assoluta libertà e budget illimitato. Welles realizzò così il suo capolavoro, “Quarto Potere” (“Citizen Kane”, 1941), una profonda riflessione sull’identità dell’uomo moderno che è basata su potere e ricchezza, a cui si unisce a una grande esaltazione del cinema come strumento sovversivo.

In questo film il protagonista è visto direttamente dallo spettatore solo una volta, all’inizio, mentre sta morendo. Per il resto la visione è mediata attraverso sei racconti di cinque personaggi diversi. L’inizio ci porta dentro un castello, dove un uomo sta morendo e pronuncia una sola parola: Rosebud. Questa parola sembra contenere un significato oscuro, che potrebbe spiegare tutta la sua esistenza. Da
un cinegiornale infatti apprendiamo che l’uomo appena deceduto è il
grande Charles Foster Kane, proprietario di una grande miniera d’oro,
di navi, edifici, giornali, fabbriche sparse in tutta l’America, forse l’uomo più ricco del mondo, paragonato all’antico imperatore della Cina, Kublai Khan, anche per la vastità dello spazio in cui vive (con tanto di zoo privato). Nonostante la scritta “No trespassing“, la cinepresa si sposta con una serie di dissolvenze incrociate fra le rovine, verso il castello, evidenziando un movimento immobile, un avvicinamento ad una meta irraggiungibile: comprendere il segreto di un uomo. Il movimento dal basso verso l’alto sfida questo cartello disposto in bella mostra sulla rete del recinto del castello, assume anche il significato di un limite invalicabile per la narrazione che risulta interdetta di fronte alla vita di Charles Foster Kane, così misteriosa e complessa, e che solo la macchina cinema si mostra decisa a tentare di costruire (le dissolvenze sono una trovata di montaggio, strumento del cinema, e solo il potere magico del cinema può andare oltre il recinto mentale della storia). Una volta entrati, ecco la casina nella neve che sappiamo essere un mito dell’infanzia, ma qui la neve cade anche fuori dalla palla di vetro, sopra la mano, fondendo realtà e ricordo. Inoltre questo simbolico oggetto cade dalla mano di Kane ormai deceduto e la neve si spande su tutta la scena, indicando una trasgressione molto violenta del realismo classico (e non è l’unica nel film).

Un giornalista, Thompson, viene incaricato di indagare, consulta le memorie del banchiere di fiducia Thatcher, già morto da tempo, e dalle pagine del suo diario depositato in un gigantesco e pauroso mausoleo, vediamo emergere il piccolo Kane che gioca con uno slittino nella neve, prima di essere portato in un elegante collegio, lontano dai genitori. Il secondo intervistato è Bernstein, il caporedattore del giornale Inquirer, diretto e lanciato dal giovane Kane. Il terzo è un giornalista, Leland, critico teatrale e amico del nostro protagonista. Quarta è la ex moglie Susan, è infine quinto è il suo maggiordomo, che ha assistito agli ultimi giorni del padrone chiuso nel castello di Xanadu. Se il cinegiornale ha mostrato il volto pubblico di Kane, gli altri cinque racconti mostrano la sua vita privata, e ciascun personaggio propone la sua versione dell’uomo che ha conosciuto sotto diversi ruoli: il pupillo, il direttore, l’amico, il marito, il padrone.

E se il cinegiornale ha posto un enigma, legato alla parola Rosebud, gli altri cinque però non sono riusciti a spiegarlo. Alla fine, dopo che Thompson ha rinunciato ed esce dal castello, mentre gli uomini dei traslochi, come tanti simboli del fato, buttano via e bruciano tutta la roba appartenuta a Kane, la macchina da presa parte da sola per compiere un lunghissimo dolly, al termine del quale scopre una slitta che Charles usava da bambino e che viene gettata nel fuoco: un primo piano ci rivela che la slitta si chiamava Rosebud. La verità che ci è apparsa nel momento stesso della sua cancellazione non significa mente, solo un’immensa nostalgia dell’infanzia, un vuoto, una mancanza che è alla base della sua vita. Rispetto all’inizio, il movimento della macchina da presa è dall’alto verso il basso questa volta, un triplice movimento che parte dagli oggetti della stanza con una lenta carrellata aerea in campo medio che percorre tutto il magazzino con un plongèe avvolgente, fino a scoprire, con un avvicinamento, la famosa slitta. E anche qui, dopo che un operaio la getta nel fuoco (segnato da uno stacco) insieme ad altri oggetti inutili. Ed infine, leggiamo la scritta tanto attesa che ci svelerà il mistero, di cui i personaggi diegetici rimarranno inconsapevoli, mentre le fiamme divampano e la slitta si scioglie (ed il segreto con lei).

Non è senza significato che il film inizi con la morte di Charles Foster Kane. Con un criterio puramente convenzionale e simbolico, questo gesto si potrebbe considerare come spartitura tra il cinema classico e il cinema moderno. Di fatto è il primo film in cui la figura base del film narrativo, il protagonista, viene demolita e ridotta a un fantasma. Presenta più narratori, quelli diegetici (personaggi) e quello astratto (la cinepresa), ed è la prima volta che il narratore e lo spettatore non sanno niente e non apprendono niente nel corso della narrazione. Per contro, in mancanza di questo contenuto narrativo tradizionale, si aprono davanti allo spettatore due altre grandi dimensioni, lo spazio e il tempo, squadernati dalle tecniche di ripresa della profondità di campo e del piano-sequenza. La fotografia di Gregg Toland infatti recupera lo stile di Ford e di Stroheim e usa il contrasto fra primissimo piano e sfondo per dare allo spazio una straordinaria violenza. Gli obiettivi usati distorcono lo spazio facendo apparire enormi o piccolissime le figure, a seconda che stiano vicino o lontane, e la durata delle inquadrature permette a ognuna di acquistare un forte valore simbolico. Si pensi alla scena dell’infanzia di Kane, in una profondità di campo insolita, molto onirica, in cui vediamo in primissimo piano la madre che decide di mandare il figlio in collegio, e sul fondo, lontanissimo, il piccolo Kane che gioca con una slitta nella neve, fuori dalla finestra. Oppure ancora Kane, ormai vecchio e abbandonato dalla moglie, passa attraverso la galleria degli specchi che gli rimanda all’infinito la sua immagine, simbolo estremo ed assoluto del narcisismo di un uomo il cui potere ha finito per distruggere se stesso e gli altri. Anche il finale a cui si faceva riferimento prima (la lunga panoramica-dolly), è simbolo del gran deposito della memoria, l’inconscio del protagonista che ha comperato tutti quegli oggetti visti in campo.

Anche il tempo cessa di scorrere in maniera lineare, si procede sempre avanti e indietro, seguendo i cinque narratori, e vediamo certi episodi ripetersi sotto i nostri occhi da un punto di vista diverso rispetto al precedente. Non esiste più niente di oggettivo, tutto è ricondotto al carattere arbitrario delle varie narrazioni. L’illusione di realtà è demolita interamente. Nelle prime e nelle ultime inquadrature è la cinepresa che acquista un ruolo fondamentale, di protagonista, e diviene l’incarnazione di una istanza visiva che sarà alla base del nuovo cinema moderno, un cinema dello sguardo e non più cinema dell’azione (di cui abbiamo analizzato già il manifesto settimana scorsa: “Viaggio in Italia” di Rossellini). Infatti solo lei può spiegarci il mistero di Rosebud.

Insomma, i film di Welles sono tutti grandiosi labirinti d’immagini e si ritorna al cinema delle attrazioni rivisitato ed enfatizzato poeticamente, in cui l’azione era niente e gli effetti tutto, ma soprattutto l’imbonitore, il narratore era davanti al suo pubblico. E proprio come un erede degli antichi imbonitori della piazza, capovolge il sistema del cinema classico secondo cui l’autore deve essere invisibile dietro le sue storie e, anzi, vuole prima di tutto far vedere se stesso e il suo lavoro di regista, mago, illusionista.

– Christian D’Avanzo