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“La La Land”: influenze e analisi

Ormai a distanza di 5 anni, “La La Land” è ancora immerso nella bolla entusiastica con la quale fu accolto all’epoca, tanto da generare il termine la la landite, come se si fosse affetti da una malattia inguaribile… d’altronde chi di voi dopo averlo visto non ha passato i giorni successivi a riascoltarsi le canzoni? Oppure girava per casa fischiettando, come Ryan Gosling, sulle note di “City of stars”? E in effetti gli amanti del capolavoro di Chazelle restano numerosissimi, come il sottoscritto, e in questa sede se ne vogliono analizzare le influenze ma non solo: rispondiamo alla domanda “Come mai La La Land si può considerare grande cinema?”

Diamoci un contesto e ricordiamo le informazioni base sul film: ha aperto la 73ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia, dove Emma Stone ha vinto la Coppa Volpi per la Migliore Interpretazione Femminile. Ha ricevuto 14 candidature ai Premi Oscar 2017, eguagliando il record di film come Eva contro Eva e Titanic, aggiudicandosi infine 6 statuette (Miglior regista, Miglior attrice protagonista a Emma Stone, Miglior fotografia, Miglior scenografia, Migliore colonna sonora e Migliore canzone originale a City Of Stars). E non è finita qua: può vantare nel suo personalissimo palmares 7 Golden Globe, su 7 candidature, il Premio del Pubblico al Toronto International Film Festival e molti altri numerosi riconoscimenti internazionali, diventando uno dei film più premiati e apprezzati del 2016 e probabilmente del XXI secolo.

“La La Land” è capace di immergerci in un mondo dai colori sgargianti, una Los Angeles divisa in stagioni e girata in wide-screen pronta a ricordarci la grandezza della Hollywood di un tempo, casa di un musical sulla vita reale con la spettacolarità del Cinemascope e del Technicolor degli anni ’50. Proprio da quel periodo (musical anni ’50-’60) Chazelle attinge sfumature di passione, sogni da voler realizzare a tutti i costi, coreografie corali ed il tentativo di portare una nuova coppia alla ribalta, dopo aver assistito nel corso della storia al lancio di svariati personaggi come Fred e Ginger (Cappello a cilindro, Follie d’inverno), Bogart e Bacall (Il Grande Sonno), Myrna Loy e Dick Powell (L’uomo ombra), coppie incredibili che interpretavano ruoli diversi ma che erano sempre loro. Emma Stone aveva già lavorato con Ryan Gosling nella commedia Crazy, Stupid, Love ed era apparsa al suo fianco in Gangster Squad, di conseguenza la scelta dei due protagonisti è stata dettata proprio dalla volontà del regista di creare-ricreare una coppia iconica. Gli anni ’50 erano gli anni della rinascita post-bellica, delle contro-narrazioni musicali, della ribellione giovanile segnata dalle acconciature e dallo stile nel vestire (jeans), ma restando più stretti sul nostro tema erano anche gli anni dei grande musical: “Un americano a Parigi” (Vincente Minnelli, 1951), “I racconti di Hoffmann” (Michael Powell & Emeric Pressburger, 1951), “Cantando sotto la pioggia” (Stanley Donen, Gene Kelly, 1952), “Spettacolo di varietà” (Vincente Minnelli, 1953), “È nata una stella” (George Cukor, 1954), “French Cancan” (Jean Renoir, 1954), “È sempre bel tempo” (Stanley Donen, Gene Kelly, 1955), “Les Girls” (George Cukor, 1957), “Gigi” (Vincente Minnelli, 1958).

Tutti titoli che hanno segnato una generazione e che sono rimasti indelebilmente nella storia in un modo o nell’altro, e moltissimi girati con il CinemaScope, brevettato in quel periodo, vi era tutta la frenesia di sfruttare al meglio questa nuova possibilità tecnica. Inoltre si poteva contare sull’apporto dei più grandi coreografi del mondo, che riempivano le scene di balletti allegri e spensierati, sullo sfondo delle monumentali scenografie colorate degli Studios. Non a caso Chazelle ha voluto girare le coreografie vecchio stile: niente montaggio. Tutto questo ha richiesto un’attenta pianificazione logistica poiché il regista ha voluto anche girare le scene più grandi con un’unica ripresa, per ottenere quella che il direttore della fotografia del film, Linus Sandgren, chiama realtà senza interruzioni. Inoltre l’esaltazione del cinemascope passa anche attraverso un sapiente utilizzo della profondità di campo mai fine a se stessa (vedasi negozio di ombrelli che ha una vetrata sull’esterno dove la vita continua e le stagioni passano mentre “dentro” speranze e dolori si susseguono). In “La La Land” si metabolizza con sapienza questa lezione non tanto per mero citazionismo o una qualsivoglia nostalgia, bensì per raccontare sia in orizzontale sia in profondità (ad esempio la vetrata del caffè da cui si intravede il mondo del cinema, se sei cameriera stai dentro il caffè e fuori dal mondo dei sogni, poi gli elementi saranno invertiti). Sui movimenti di macchina che dire? Damien Chazelle si dimostra validissimo nel mettere la cinepresa al centro di una danza quasi costante, giocandosi al meglio l’idea di avere una macchina che senta la melodia, che diventi parte della coreografia. Si è dichiarato influenzato dagli eloquenti movimenti di Max Ophuls, un maestro dei movimenti di macchina nella storia del cinema, ma anche dal lavoro di macchina espressionista di Scorsese in Toro Scatenato, che posiziona la macchina da presa all’interno di un ring, mentre l’allievo Chazelle la pone all’interno del ballo, dandoci l’impressione che tutto si svolga intorno a chi guarda. Il prologo “Another day of sun”, la zero gravità della scena nel planetario, la vivissima messa in scena di “Someone in the crowd” ed il nascondere i propri sentimenti dietro un fragoroso ballo in “Lovely Night”, sono tutti figli di quanto detto finora. In più mettiamoci che tutta la sequenza finale può benissimo essere ricondotto a più scene, tra cui il What if? presente in Cantando sotto la pioggia, dove Gene Kelly immagina sé stesso agli albori della carriera e voglioso di sfondare, ma amareggiato una volta riuscitoci. Eppure non c’era molto spazio per la malinconia, le commedie romantiche musicali di quegli anni sono contrassegnate dalla spensieratezza simboleggiata dal cantare sotto la pioggia mantenendosi ad un palo della luce (omaggiato da Sebastian qui). I diversi set utilizzati nella sequenza finale di “La La Land” non possono non ricordare la magia di quel viaggio personale, sia per l’uso di colori accesi sia per il metacinema, ma anche per il sogno disilluso.

Tutta la potenza delle immagini e del CinemaScope
https://www.youtube.com/watch?v=gry8mj8Zql8&ab_channel=ct18ms
Scena in cui il personaggio di Gene Kelly in “Cantando sotto la pioggia”, mette all’opera la sua immaginazione (se n’è fatto riferimento prima)

 La ricostruzione minuziosa di un cinema di altri tempi però non finisce qua, perché in “La La Land” Los Angeles viene sfruttata nel migliore dei modi, giocando con lo spettatore tra passato e presente, due epoche diverse segnate dall’Osservatorio Griffith, lo storico Lighthouse Cafè a Redondo Beach, un club in cui si ascolta jazz dal 1949, il bar dove lavora Mia (Emma Stone) all’interno degli Studios si trova vicino al set in cui è stata girata la scena di Casablanca con Bogart e la Bergman (di ispirazione sia per Mia che per i costumi a lei destinati) che si affacciano da una finestra, ma si intravede anche la scritta Les Parapluies de Cherbourg (1964), omonimo film di Jacques Demy appartenente al filone musical anni ’60, fondamentale per la formazione di Chazelle. Proprio gli anni ’60 furono il decennio di transizione tra i due mondi, una sorta di limbo tra il vecchio e il nuovo Cinema (“West Side Story” di Robert Wise e Jerome Robbins, datato 1961 e di cui trovate qui la nostra recensione: “Tutti insieme appassionatamente” sempre di Robert Wise, datato 1965). Infatti con l’avvento della New Hollywood, il musical subì una decodificazione da parte dei giovani autori dell’epoca: la spensieratezza lasciava spazio al dolore e al pessimismo, i colori accesi a quelli scuri. Da questo punto di vista i musical di Jacques Demy sono stati di netta ispirazione al caro Chazelle, in particolare con l’amaro finale de Les Parapluies de Cherbourg, dove i due protagonisti disillusi dal loro sogno d’amore guardano in faccia alla realtà oltre che a loro stessi dopo svariati anni, celando un rancoroso “E se…?” dietro un tiepido addio. Così come Mia e Seb, fieri di aver realizzato i propri sogni dopo duri sacrifici, incrociano i loro occhi per l’ultima volta accennandosi un sorriso anche malinconico, sempre volto a nascondere la passione per quel finale alternativo, impossibile da conciliare con la realtà. In un altro film di Demy, Josephine (Les demoiselles de Rochefort) (1967), compare Gene Kelly simbolo dei musical anni ’50 e incredibilmente coerente per il discorso del passaggio da un modo di fare cinema\musical ad un altro. Da Les demoiselles de Rochefort, Chazelle prende le coreografie di gruppo (soprattutto quella iniziale in piazza è paragonabile al prologo di “Another day of sun”) e soprattutto un grande amore per un genere musicale in particolare: il jazz. Di fatto in entrambi i musical sono presenti, nella colonna sonora e nelle canzoni, gli stessi strumenti musicali tipici del jazz, quindi abbiamo batteria, il pianoforte, strumenti a fiato come le trombe e i sax, hi hat rullante e cassa, in alcuni frangenti possiamo udire anche uno strumento a corde come il violino, solitamente fuori dagli schemi del jazz (ma si oscilla spesso tra il jazz, il blues, il Bossa Nova e qualche elemento soul). Il tutto è accompagnato da un ritmo sincopato e da un alternarsi tra cantato e strumentale. Anche l’approccio del cantato è molto simile siccome in entrambi questi film vi sono parti più parlate, in modo ritmato, e parti più melodiche, specie quando c’è da dar voce ai propri sentimenti individuali. In entrambe le opere, ma anche nel precedente Les Parapluies de Cherbourg, l’amore e i sogni personali hanno una centralità preponderante nella narrazione, e l’hanno a ragion veduta dal momento in cui il musical come genere preso a sé permette ai personaggi di esternare tutta la loro intimità. A tal proposito, le influenze dei due musical francesi sono evidenti anche nella scelta dei colori pastello dei costumi che stridono con le inquietudini e i dubbi sulla vita e sul futuro che i protagonisti provano.

Esempio dell’uso dei colori pastello in “La La Land”
La finestra di “Casablanca” ed il negozio di “Les parapluies (ombrelli) de Cherbourg”
https://www.youtube.com/watch?v=WGlfkX3886Q&ab_channel=mthld007
Les demoiselles de Rochefort
Il prologo di “La La Land”

Eppure la musica non si limita solo a questo, ma in “La La Land” il jazz è metafora di quello che è il cinema ai giorni nostri. Un genere musicale sta morendo perché ritenuto ormai vecchio, passato di moda, eppure non smette di essere praticato con grande passione e non smette di essere ascoltato dai nostalgici e dagli amanti veri della musica. Questo perché? Perché la storia non va mai dimenticata, va compresa e studiata in modo da rielaborare il suo meglio con quello che offre il presente, ed è quello che tentano (non riuscendoci troppo bene in termini qualitativi) di fare i The Messangers guidati dal personaggio di John Legend all’interno del film. Il jazz viene rielaborato non dimenticando le sue radici, ma si mescola con il presente quindi il pop per poter arrivare a più generazioni, e in tal senso “Start a Fire”, unica canzone scritta da John Legend tra l’altro, comincia in chiave jazz per finire ad essere completamente pop e ci ricorda quanto sia pericolosa questa operazione dal momento in cui si rischia di sottomettere un genere all’altro (si deve saper fare in primis, non è da tutti, per quanto siano nobili le intenzioni). “La La Land” da un punto di vista cinematografico fa proprio questo, unisce la commedia romantica, il musical, il dramma, ci mostra poster e luoghi di attori e film storici come la Bergman e Casablanca, omaggia i musical epocali in modo funzionale alla sua storia. Insomma diventa un film per tutti, dal cinefilo più attento allo spettatore occasionale che proprio non può far a meno di restare folgorato da questo mondo diegetico costruito con maestria e consapevolezza. La consapevolezza è fondamentale, soprattutto in un’epoca come la nostra abbiamo bisogno di chi riesce a fornirci le linee guida per guardarci indietro ma anche per poter balzare in avanti (sognare), questo lo avevano intuito dagli anni ’50, momento storico in cui vengono fondati I Cahiers du cinéma da André Bazin, Léonide Keigel, Joseph-Marie Lo Duca e Jacques Doniol-Valcroze, ed è proprio in quegli anni che inizia ad esserci una presa di coscienza nei confronti del cinema inteso come arte.

Un’inquadratura della scena del Planetario

Parliamo dunque di epoche, generazioni differenti, di mescolare caratteristiche e tempi. Il cinema e l’arte sono sempre state specchio fedele della realtà circostante, ed effettivamente abbiamo visto che negli anni ’50 post seconda guerra mondiale c’era un clima disteso, negli anni ’60 iniziano le prime incrinature a precedere un periodo storico nel quale non c’era più spazio per film dalle trame leggere e distese, ossia la ribellione del ’68, la rivoluzione sessuale, le grandi marce per i diritti civili e la guerra del Vietnam, tutti elementi che avevano mutato per sempre la società statunitense: “Jesus Christ Superstar” (Norman Jewison, 1973) “The Rocky Horror Picture Show” (Jim Sharman, 1975), “New York, New York” (Martin Scorsese, 1977), “Hair” (Miloš Forman, 1979). Volendo il finale di “La La Land” di cui già abbiamo parlato prima, è riconducibile anche a quello di “New York, New York”, a ruoli invertiti però.

Ecco cosa ci mancava! Il musical della nostra generazione, un musical che sfondasse su tutti i fronti e che con forza facesse breccia nei nostri cuori. A distanza di tantissimi anni dal musical classico, Chazelle ci regala “La La Land”, capolavoro filmico ed evidentemente generazionale, capace di rielaborare le musiche del passato (più presente il pianoforte rispetto ai film di Jacques Demy, in cui gli strumenti a fiato la fanno da padrone) svecchiandole e cucendole su di una narrazione dedicata ai folli e ai sognatori, senza epoca, ma consapevoli (di fatto non si capisce mai realmente in che epoca sia ambientato il film, potrebbero essere gli anni ’90 così come i giorni nostri). Ribadiamo anche che mescola generi cinematografici, appunto dal musical classico alla commedia romantica moderna, redigendo una lettera d’amore al cinema tout court con una storia d’amore e di passioni\sogni come sospesa nel tempo, svincolata da tutto (e anche questo si lega inevitabilmente al discorso per cui non si capisce in che epoca si ambienti il film). Che si tratti di una storia senza tempo lo si intuisce anche dalla formazione cinefila di Mia che viene fuori nei dialoghi durante il film, difatti lei è cresciuta guardando pellicole in bianco e nero come Susanna o Notorious e le pareti del suo appartamento sono abbellite da poster raffiguranti Ingrid Bergman e Burt Lancaster, e inoltre ci racconta che è stata una passione trasmessale da sua nonna, così come Seb le trasmette quella per il jazz (quanto è importante la condivisione!). “La La Land” sa di essere un film, esattamente come Godard era consapevole del cinema a lui precedente e ne sovverte le regole, solo che qui non c’è una vera e propria sovversione ma è un altro tipo di lavoro, cioè il musical ammette una sospensione dell’incredulità maggiore rispetto ad altri generi e Chazelle gioca con questo aspetto, gioca con gli spettatori ed anche con i suoi personaggi, si rompe la quarta parete (come ad esempio nel piano sequenza iniziale in cui molti personaggi cantando guardando in camera), ci si lascia trasportare dai sogni a tal punto che sembra vera la scena a zero gravità nel planetario tra i due innamorati che si annullano e si lasciano trasportare dalle emozioni, così come gli spettatori.

L’appartamento di Mia (Emma Stone)

E come nel cinema classico non può mancare un tipo di narrazione circolare, scandita sulla base delle quattro stagioni (rappresentate al meglio dalla ricerca cromatica con scenografie e costumi), metafora delle fasi della vita e della relazione tra Mia e Sebastian: si parte con l’inverno, con l’inizio della storia e l’incontro tra i due protagonisti; poi la primavera, con la nascita dell’amore (a primavera tutto fiorisce, d’altronde); a seguire l’autunno, quando cominciano a delinearsi all’orizzonte i sintomi della crisi (che viene simbolicamente preannunciata dalla chiusura del piccolo cinema d’epoca, il Rialto); e infine ancora l’inverno, con un nuovo inizio (di vite e carriere) e il nuovo incontro tra Mia e Seb. Cerchio chiuso.

Concludiamo l’arringa con l’interrogativo finale postoci in “La La Land”: è davvero possibile vivere un grande amore o siamo destinati a trascorrere la nostra intera esistenza con il rammarico di quello che poteva essere, ma che non è stato? L’andamento della storia risponde da solo alla domanda. Quando la vita li ha messi alle corde, Mia e Seb avevano nient’altro che loro stessi, l’uno per l’altra, erano semplicemente dei “folli sognatori” impossibilitati nel realizzarsi e che concentravano tutto sul loro amore. Man mano che i loro percorsi professionali prendevano forma, qualcosa ha iniziato a non andare tra di loro, come se quel sentimento fosse talmente grande da meritare uno spazio tutto per sé, e doveva necessariamente essere protagonista assoluto del palcoscenico (quindi la vita), senza che fosse schiacciato o messo in ombra dal contorno (quindi la carriera, il desiderio di fama e successo). “Io ti amerò per sempre”, afferma Mia. “Io pure”, le risponde Seb”. Questo perché il loro amore continuerà a esistere nei loro cuori e nei loro ricordi. Infatti la realtà parallela che ci viene mostrata non è altro che il nascondiglio segreto dei loro sogni, una specie di subconscio che li rende consapevoli (altra parola chiave) alla fine, quando incrociano i loro sguardi per l’ultima volta nei relativi primi piani.

L’epilogo di La La Land

Un’opera perfetta e di cui personalmente non cambierei una virgola, semplicemente grandiosa.

Spero di avervi fornito tutte le argomentazioni possibili per sostenere la grandezza di questo film e del genere musical, fondamentale per la storia del cinema. E per citare il critico Paolo Mereghetti: “Se amate il cinema, non potete non amare La La Land”.

– Christian D’Avanzo

Ringrazio Pierluca Parise, ex redattore di CineFacts.it, ma soprattutto un grazie in particolare a Giovanni Urgnani, Enrico Baccilieri, Danilo Carbone e Adriano Della Starza alias Il Collezionista di Ombre, per ispirarmi e supportarmi tutti i giorni.