Articolo pubblicato il 13 Aprile 2022 da wp_13928789
“La ragazza di Stillwater” è un film del 2021, uscito in sala da noi il 9 settembre ed è diretto, nonché scritto, da Tom McCarthy. Il regista dopo aver vinto l’Oscar alla miglior sceneggiatura originale nel 2016 per “Il Caso Spotlight”, che si è accaparrato anche il premio al miglior film, dirige un cast interessante che comprende Matt Damon, Abigail Breslin, Camille Cottin e Deanna Dunagan. Inoltre ricordiamo che è stato presentato fuori concorso al festival di Cannes di quest’anno.
Tom McCarthy fa centro nuovamente, dopo aver diretto magnificamente tutto il cast de “Il Caso Spotlight” (tanto da prendersi una nomination alla miglior regia sempre agli Oscar del 2016), anche qui lavora in eccellente modo sia per quanto riguarda la direzione degli attori, sia per quanto riguarda la scelta di inquadrature suggestive che parlano e sfruttano il paesaggio europeo di Marsiglia. La narrazione si apre con una detective story immersiva nel presentarci i personaggi: Bill Baker, uno yankee nudo e crudo, l’americano medio che vota Trump si ritroverà proprio contro i suoi ideali e sarà pronto a ricredersi quando toccherà con mano la violenza delle fake news nonché del razzismo. Bill è un personaggio rozzo, sia nella camminata (complimenti ad un ottimo Matt Damon) quanto nella scarsa empatia dimostrata, ma anche nel suo essere poiché di mestiere è un trivellatore di petrolio (grezzo, non a caso). Dopo aver affrontato il suicidio della moglie e i problemi con l’alcol, Bill parte per andare a trovare la figlia a Marsiglia, in prigione già da 5 anni e ne avrà ancora 4 da scontare. Racconto che ci rende subito partecipi della questione con Allison Baker insiste nel provare la sua innocenza e incarica il padre di parlare con il suo avvocato per far riaprire la causa al giudice (cosa mai accaduta per quello che è il sistema giudiziario francese) e per cercare Akim, quello che sembra essere il vero omicida di Linda, compagna di vita e di stanza della giovane studentessa. I problemi sorgono quando Bill si renderà conto di essere solo in terra straniera, gli avvocati non ne vogliono sapere di cercare un colpevole fantasma e dunque il nostro impavido protagonista pensa bene di agire da sé.

L’INCONTRO FRA POLI OPPOSTI
“La ragazza di Stillwater” è, prima ancora di essere un thriller, un affresco sull’umanità. Bill Baker da buon americano medio trumpiano si trova a disagio in un paese europeo di cui ignora i costumi e la cultura, molto diversa dalla sua. La barriera linguistica si presenta come un ostacolo duro da superare, ma Bill non si arrende ed è fortunato a trovare un grande aiuto in una coppia madre-figlia, rispettivamente Virginie e Maya. Dopo un’ora circa di narrativa da detective story, il padre asfissiato dai problemi legati alla figlia cede nel cercare inutilmente in giro il sospettato Akim ritrovandosi ad affrontare una comunità, quella dei ghetti di Marsiglia, molto unita e per questo nessuno vuole fare la spia su dove trovare il ragazzo di origine araba. Comunità araba che, come viene denunciato in un dialogo incisivo del film, è sempre stata maltrattata dai francesi che non perdono occasione di rimarcare il fatto di essere stati “invasi” così come gli americani con i messicani. Così arriviamo alla fine della prima parte, d’ora in avanti avremo un film ancora più intimo e umano, accompagnato da uno humor intelligente capace di strappare diversi sorrisi per alleggerire 2 ore e 20 minuti che altrimenti rischiavano di pesare. McCarthy decide di concentrarsi sulla relazione tra i personaggi, tra Bill e la coppia Virginie-Maya, con la prima che si batte per le giuste cause come intuiamo, cerca sempre di aiutare e rendersi utile, attrice teatrale amante dell’arte, è il polo opposto di Bill che ammette di non entrarci nulla con il teatro e di non poterlo comprendere. Quello che possiamo definire come “popolo alto” e “popolo basso” vengono a contatto e finiscono addirittura con il provare sentimenti reciproci forti, pur essendo diversi tra loro riescono a rispettarsi senza problemi. Il rispetto è la parola chiave: bisogna saper stare al proprio posto, consci dei propri limiti (è umano per tutti averne) e portare rispetto appunto, a quello che non conosciamo o comprendiamo appieno, il fantomatico DIVERSO. La coesistenza tra poli opposti è possibile e McCarthy ce lo fa notare con delicatezza. Così come è delicato, tenero, il rapporto che si viene a creare tra Maya e Bill. Quest’ultimo ha tanto da perdonarsi e cerca redenzione come padre prendendo a cuore questa bambina monca di una figura genitoriale, i due comunicano pur non parlando letteralmente la stessa lingua, ma impareranno tanto l’uno dall’altro. Altro elemento che McCarthy inserisce all’interno della narrazione, IMPARARE dal diverso. C’è sempre da imparare e bisogna avere una mente aperta a tutto per poter crescere come persona. Per di più Bill inizia a diventare un uomo volto alla generosità e all’empatia, porta Allison a conoscere la sua nuova famiglia e la sua casa, parlano del suo nuovo lavoro di muratore ma torna in auge anche l’ombra pressante del passato.

RITORNO AL THRILLER
Dopo circa 40\50 minuti nel blocco centrale di dialoghi e conoscenza dei\tra i personaggi, ecco che si riaccende la detective story. Abbiamo un ritorno al thriller deciso, con Bill che incontra fortunosamente Akim allo stadio durante una partita del Marsiglia, squadra del cuore della piccola Maya (con cui tra l’altro Bill, in continuità con il paragrafo precedente, ha avuto una discussione su quale fosse il “vero” football, se quello americano più simile al rugby oppure il calcio, lo sport più seguito in Europa). Un risvolto alla “Prisoners” di Villeneuve, con Matt Damon che ricalca il personaggio interpretato da Hugh Jackman e mette in pericolo la sua nuova famiglia. Thriller e dramma si incrociano, la tensione cattura l’umano, implode e poi esplode: un meccanismo vincente che porta ad un climax finale dall’etica sfaccettata, nessuno viene giudicato dalla cinepresa di McCarthy, tocca al pubblico farsi un’idea (così come in quel capolavoro che è “Parasite”) sul bene e il male, sul buono e il cattivo, bianco o nero, chi è la vittima e chi il carnefice? Questo equilibrio la fa da padrone per tutto il film dato che il regista non prende mai una posizione netta, ci presenta croce e delizia di ogni personaggio e starà a noi farci un’idea personale. Scelta coraggiosa di McCarthy, che non solo intelligentemente disegna un’opera di denuncia travestita da thriller, ma sarà anche incredibilmente tutto umano ed intimo. Il finale non poteva che essere perfettamente in linea con quanto scritto fino ad ora, proponendoci un altro grande elemento su cui riflettere, un plot twist che lega tutto (Stillwater e Marsiglia si erano già incontrate, ma non si erano capite non parlando la stessa lingua). Anche la sua regia si pone con noi con una funzione, ci parla con inquadrature seducenti che mostrano in campi lunghi o lunghissimi tutta l’ampiezza di Marsiglia, come città e comunità divisa, nei ghetti le persone di colore si difendono e condividono l’amore per il calcio.

MEKTOUB, MY BILL
Con la citazione ad un certo film, concludiamo quest’analisi de “La ragazza di Stillwater”. Dopo aver messo in pericolo la sua famiglia francese, Bill si vedrà costretto a tornare da dove è venuto, ossia proprio a Stillwater, Oklahoma. Il viaggio giudiziario è in realtà stato anche un viaggio interiore per il protagonista del film, in contatto per mesi con il diverso tanto temuto in precedenza, si ritroverà nel primo piano finale ad ammettere (al contrario di Allison) di aver trovato un’America diversa al suo ritorno, ma in realtà quello che è diverso è lui. In un dialogo con Allison, padre e figlia si ritrovano a parlare del concetto di Mektoub, ossia di pace interiore (concetto simile al Nirvana, orientale, diverso dall’occidentale), Bill si ritroverà a perdere e vincere nello stesso tempo, prende una scelta e gli va anche bene…o male? Che tu possa ritrovare il Mektoub, caro Bill…
Quando la regia non è solo bei movimenti di macchina o buona scelta di inquadrature, è un qualcosa che ci parla; inoltre McCarthy dirige ancora benissimo i suoi attori, dal primo all’ultimo. Film intelligente, importante, bellissimo… ecco che il meno chiacchierato tra le uscite di settembre, si rivela essere una piacevolissima sorpresa!
Voto: 8+
– Christian D’Avanzo
Andrea Barone: |
Andrea Boggione: |
Carlo Iarossi: |
Paolo Innocenti: 7,5 |
Giovanni Urgnani: 8,5 |