“Suicide Squad” di David Ayer fu bocciato dalla critica ma allo stesso tempo fu un successo di pubblico, quindi era naturale pensare che la Warner Bros sarebbe tornata a toccare il tasto su questa squadra di super criminali. Tuttavia, in questi anni, i piani sono cambiati e stavolta al timone della sceneggiatura e della macchina da presa c’è James Gunn, regista ormai sulla cresta dell’onda grazie ai successi critici ed economici di “Guardiani Della Galassia”. Tuttavia, per volere dello stesso Gunn, i collegamenti con il primo film sul famelico gruppo sono ridotti al minimo… ed abbiamo quindi “The Suicide Squad: Missione Suicida”, ultima opera ambientata nel DC Extended Universe.
La cosa ha lasciato in confusione un po’ di spettatori: è un reboot? Un sequel? In realtà l’opera è ambientata anni dopo il primo capitolo, ma quasi tutti i membri sono cambiati, per questo non ci sono riferimenti diretti al primo film, il quale non viene cancellato, ma chiunque non abbia visionato quest’ultimo potrà comunque gustarsi l’opera di James Gunn senza problemi.
La trama vede il governo che deve realizzare una missione così pericolosa che la morte è molto probabile per chiunque muovi un passo. Per questo i soldati scelti saranno dei criminali con capacità molto forti che avranno come premio la pena scontata. Stavolta la missione consisterà nel fermare degli esperimenti che si stanno svolgendo in un paese del terzo mondo chiamato Corto Maltese, in cui si svolge una guerra civile.
Al momento lo schema della Warner Bros nei confronti della DC è quello di lasciare libertà ai registi che vengono scelti (inutile dire che questo schema prosegue finché gli incassi funzionano) e la voglia gigante di avere James Gunn ha permesso a quest’ultimo di avere totale carta bianca, tanto da scegliere personaggi dei fumetti per lo più sconosciuti al pubblico senza preoccuparsi del divieto ai minori (in Italia completamente sparito come da prassi ormai).
La qualità estetica dell’opera è di un’eleganza spaventosa, con un Gunn scatenato che ha deciso di creare atmosfere pop art molto forti, con geometriche che sembrano dipinti mentre gli scatti della macchina da presa inseguono il corpo e le espressioni dei personaggi, caricando ogni singola azione di un’energia potente mentre gli schizzi di sangue non mancano affatto, riuscendo a trovare un equilibrio perfetto tra uno splatter impressionalmente realistico ma con un pizzico di caartoon tarantiniano senza però arrivare ai fiumi delle fontane di “Kill Bill”, scegliendo quindi un’estetica diversa.
La scena in cui King Shark divide a metà un uomo, mentre esplodono i fulmini con un bianco vitale dettato dalla splendida fotografia di Henry Braham può essere uno degli elementi cardini che riassumono la potenza della pellicola, in cui c’è un’esplosione che contrappone la vita mentre la violenza penetra nello spettatore. Questo contrasto ambiguo di vedere il bianco della tempesta della pioggia, colore associato anche alla vita paragonato in questo caso alle “seghe degli angeli”, ritratto malato quindi di una bellezza artistica arrivante alle creature del cielo, mentre vediamo però dei personaggi che sono pronti ad uccidere tutti (e da qui il bianco può essere convertito in un altro simbolo usato spesso: quello della morte e del vuoto) è un contrasto che lo stesso Gunn esprime visivamente più volte.
Negli spettatori infatti potrebbe rimanere impresso per sempre il momento in cui vediamo letteralmente i pensieri di Harley Quinn prendere vita anche sul lato visivo, in modo che noi possiamo capire anche superficialmente la sua stessa follia, mentre le parti del corpo degli esseri umani si trasformano in qualcos’altro attraverso gli occhi di una donna malata dentro ma carica di energia. Questo linguaggio, che prende le esplosioni fumettistiche in cui ogni schizzo di energia e di violenza appare come un’altra pennellata che sembra quasi il trionfo di LSD da parte di chi non ha freni, si fonde con quello cinematografico attraverso un modo molto raro nei cinecomic e nei blockbuster. Viene paragonato a quello di “Deadpool” per la violenza grottesca, ma il tipo di stile è molto più paragonabile a quello di opere come “Scott Pilgrim vs The World” e “Spider-Man: Un Nuovo Universo”, perché qui la parola “live action” sembra essere un limite ormai scomparso.
La differenza, però, tra gli stili di questi due film (uno che fonde fumetti e videogiochi con il cinema e un altro che dà vita alle tavole trasformando l’animazione per il grande pubblico in qualcosa di più astratto) è che Gunn porta nel blockbuster non solo l’esplosione della pop art dipingendo le inquadrature con soluzioni visive abbozzate (già lodevole di per sé), ma fonde altri linguaggi che rimandano a un tipo di cinema di nicchia per il quale il regista mostra tutto il suo amore: Troma, cinematica in cui il corpo umano assume varie forme da incubo mentre commedia e sangue la fanno da padrone in quella che sembra una parodia della realtà senza rinnegarla (i topi), qui esplode per la prima volta in un’opera che però è costata milioni e quindi non ha limiti (la figura di Starro ad esempio fa riferimento a “Slither” dello stesso regista che è sempre stato un grande omaggio alla stessa Troma). Non mancano poi gli omaggi a Gaspar Noé (la scena del cuore) ea George Romero (che non è di nicchia come le due cose appena citate ma è ancora difficile da trovare nel cinema di massa odierno).
Ma la grande bellezza di quest’opera non è determinata solo dal lato visivo, ma anche dal fatto che James Gunn, in questo concentrato di follia che vuole divertire, è enormemente interessato a raccontare al pubblico le stratificazioni sociali, spesso distruggendo il concetto di ‘apparenza. Qui l’autore esprime tutti i disagi causati da persone emarginate costrette a vivere nell’ombra perché distrutte da un sistema che non le comprende. Non è un caso che nel film ritroviamo subito la distinzione tra i membri della squadra che amano usare le proprie capacità di bullismo (Savant) e quelli che sono impreparati in un mondo troppo disconnesso da lui (King Shark). Più i personaggi sono bizzarri e mostruosi, più Gunn cerca una luce continuamente oscurata dalla povertà e dal desiderio di mettere una bandiera positiva su ciò che deve essere sempre visto come bello dal mondo esterno quando non lo è.
Quest’ultimo concetto è legato al patriottismo americano, che in quest’opera non viene distrutto, ma letteralmente disintegrato in tutta la sua ipocrisia. Non c’è volontà di aiutare gli altri, ma c’è solo il mantenimento della calma fatto per mantenere il controllo, che non diminuisce la violenza, ma solo la blocca fino a quando quest’ultima esplode nel peggiore dei modi perché la base dettata da ogni azione non è mai stata voluta per la pace, ma solo per manifestazioni di potere e dimostrazione del proprio io: da qui il carattere di Amanda Waller sempre più spietata, disposta a tutto pur di mantenere strati sociali che devono rimanere immutati ma senza che nulla cambi, simbolo di un potere economico e di immagine che si volge sempre verso se stesso e in questo modo uno dei migliori cattivi dello stesso cinema DC.
E in questo strato di violenza totale, di totale mancanza di gioia, la ricerca dell’amore e della comprensione verso persone che sembrano non avere più nulla da dire al mondo è ciò che può spingere qualcuno a rituffarsi in quella luce di vita per salvare la tua anima, mentre tutto ciò che hai è continuamente messo in discussione perché sei in un posto così pericoloso perché qualcuno vuole ucciderti o ti costringe a uccidere, anche se ancora lo strato violento dell’uomo sembra qualcosa che non smette di essere parte di noi stessi e che decidiamo di farlo uscire o no.
Tutti questi concetti James Gunn non solo li esprime in modo molto esplicito, cercando l’umanità nelle cose più impensabili (incluso Starro, uno dei mostri apparentemente più insensati di sempre ma che invece miracolosamente prende vita sul grande schermo grazie ad una scena impressionante), ma ha il tempo di farlo anche in una follia totale che non tocca mai i momenti più emozionanti e drammatici del film. Cinema destinato alle masse che intrattengono quest’ultimo, ma senza mai rinunciare alla profondità e alla sperimentazione dell’eccesso dettata solo per il piacere di raccontare ed esprimere qualcosa, attraverso varie soluzioni visive, attoriali e di sceneggiatura che raggiungono il vertice della perfezione, in cui anche John Cena riesce a recitare bene (un attore su cui pochi avevano scommesso per un ruolo come questo).
“The Suicide Squad: Missione Suicida” può essere tranquillamente classificato come uno dei migliori cinecomics mai realizzati, raggiungendo vette difficilmente raggiungibili nei blockbuster di questo genere. A questo punto vorrei citare le parole usate dal critico Matt Zoller Seitz per un’altra recensione, ma che mi sembrano perfettamente appropriate: “È esasperante. È monumentale. È arte.”
Andrea Barone