Articolo pubblicato il 6 Gennaio 2022 da wp_13928789
“Il Divin Codino” è un film del 2021 diretto da Letizia Lamartire, in uscita su Netflix il 26 maggio, ma noi di Quart4 Parete abbiamo avuto la fortuna di poterlo vedere in anteprima.
L’opera originale Netflix è biografica ed è incentrata sulla carriera calcistica di uno dei campioni assoluti italiani in questo sport, Roberto Baggio. In 92 minuti hanno cercato di raccontare l’essenza del protagonista (qui interpretato da Andrea Arcangeli), mostrandoci eventi di vita privata con la sua famiglia, in particolare con il padre Florindo (Andrea Pennacchi) e la sua compagna\moglie Andreina (Valentina Bellè), ma non mancano le grandi figure che hanno segnato la carriera di Baggio come uomo e come calciatore, ossia Arrigo Sacchi (Antonio Zavatteri) e Carlo Mazzone (Martufello). Tutti gli attori sono stati eccezionali nel ricreare i personaggi interpretati mettendoci anche la loro personalità e cambiando il loro accento per dare ancora più credibilità.
Saranno riusciti a riprodurre fedelmente l’essenza del Divin Codino in soli 92 minuti?
Innanzitutto quando parliamo di un prodotto originale Netflix la cura estetica è sempre ad alti livelli, a prescindere da quanto voglia essere maturo e impegnato il film. Infatti anche ne “Il Divin Codino” ritroviamo una cura attenta dei dettagli per la ricostruzione di un’epoca attraverso gli abiti, tra cui le divise e le tute delle squadre di calcio in quegli anni, le scenografie (un po’ meno rispetto al resto, per questione di costi probabilmente), il trucco e le acconciature. La fotografia ha un taglio che i prodotti Netflix hanno quasi sempre, molto artificiale ma funzionale al caso e con un lavoro di color correction ottimale; il montaggio insieme al sonoro è imperioso, dinamico, tutt’altro che invisibile ma anche in questo caso parliamo di funzionalità per il prodotto studiato a tavolino per l’occasione (partite allo stadio, “crack” di ginocchia, calci al pallone, respiro in campo, l’isolamento del personaggio). La regia della Lamartire si sposa perfettamente con tutti questi aspetti e si regala inquadrature sia geometriche che dinamiche, quasi come se stesse appresso al pallone, a ricreare una specie di soggettiva sull’oggetto ma che soggettiva non è.
Chiusa la parentesi sulla costruzione tecnica del film, rispondiamo alla domanda di prima. L’essenza di Baggio è stata catturata perfettamente? A nostro parere l’essenza c’è, ma non perfettamente, eppure di questo probabilmente ne erano consci quando hanno dato vita a questo tipo di progetto. Un film di 92 minuti sicuramente è un qualcosa di diverso rispetto a documentari recenti come “Mi chiamo Francesco Totti” di Alex Infascelli e “Diego Maradona” di Asif Kapadia, ed al di là della durata è proprio il genere a farla da padrone, perché con documentari realistici composti da racconti e interviste personali o di gente vicina a questi personaggi, ovviamente il risultato sarà diverso per forza di cose. Normale quindi, che in 92 minuti non si potesse narrare integralmente la storia calcistica e personale di Roberto Baggio, ma ci si dovesse concentrare su alcuni aspetti e approfondirli rispetto ad altri. Personalmente preferisco sempre i documentari rispetto a delle pellicole biografiche, proprio per motivi di autenticità e di una narrazione più completa.
La storia di Baggio nel film inizia con lui agli albori della sua carriera al Vicenza in serie C, il primo incontro con Mister Sacchi, il passaggio alla Fiorentina, l’approccio al buddhismo ed il sogno di vincere il mondiale con l’Italia contro il Brasile per una promessa (fittizia) fatta a suo padre quando aveva solo 3 anni mentre la nostra nazionale perse inesorabilmente la finale 4-1. La sceneggiatura è incentrata, più che sul farci vedere le magie con il pallone da calcio sul campo, sull’intimità di una persona sempre stata fuori dai mass media e di come il rapporto che ha avuto con la sua famiglia ha influito tanto poi sulle scelte durante la sua carriera. Ci sono varie scene di Roberto Baggio giovane, solo in una stanza a pensare alla sua vita (soprattutto a Firenze) e al rapporto complicato col padre Florindo Baggio, ad affrontare le mille difficoltà dovute anche al suo primo grave infortunio. Ottima la scelta di produttori e sceneggiatori di concentrarsi sul lato umano, mostrare l’uomo dietro il campione e offrire anche spunti di riflessioni tramite i rapporti travagliati tra Roberto e il padre, riflessa poi nel rapporto con gli allenatori, in primis con Sacchi e le sue idee rivoluzionarie.
“L’Italia è brutta perché ognuno pensa a sé stesso“
Arrigo Sacchi nel film
Una frase che fa riflettere, anche e soprattutto per la modernità tematica che può potenzialmente avere un’affermazione del genere. La mentalità italiana legata non solo al calcio ma in generale, è effettivamente incentrata sul pensare a sé, essere egoisti e non positivamente forse, ecco perché non stiamo messi proprio benissimo per usare un eufemismo. Insomma, spunti di riflessione niente male.
Durante il film non vengono mai mostrati rapporti con i 7 fratelli di Baggio e con i compagni di squadra (un accenno solo a Brescia), poco o niente con la madre e si poteva approfondire un po’ di più quello con la moglie Andreina. Ci si concentra molto più sul padre perché è incisivo per la creazione e lo sviluppo di Baggio uomo, riflesso poi con Sacchi che è il personaggio secondario messo più in evidenza dopo il padre, un rapporto fatto di fiducia silenziosa e stima reciproca, ma anche di testa a testa accesi. L’intimità del protagonista è il centro di tutto, la sua emotività durante gli eventi nella sua vita privata e nella sua vita pubblica, dall’ombra del rigore sbagliato nel ’94 in finale all’amore immenso del pubblico e del popolo italiano; non a caso il film non tratta tanto i passaggi da una squadra ad un’altra quanto l’importanza della maglia azzurra, Baggio è un simbolo per tutti gli italiani più che per i tifosi di una squadra in particolare, una bandiera pura per tutta la nazione. Il rapporto con Mister Mazzone invece è appena accennato ma va bene così, perchè è funzionale a farci comprendere quanto i due si siano subito capiti e quanto quello tra Baggio e il Brescia, sia stato un rapporto d’amore reciproco sin da subito.

In conclusione, “Il Divin Codino” è un’opera fatta di pancia e di cuore, imperfetta come tante altre ma ben studiata sia dal punto di vista tecnico che della scrittura, con messaggi di riflessione ed emozione. Sfera pubblica e privata si incrociano e si sovrappongono il più delle volte, incidendo sugli eventi sportivi e personali del nostro protagonista e campione, trasmettendoci la grinta per superare le avversità senza mai mollare e invitandoci a credere sempre in noi stessi a prescindere dagli altri, per quanto sia importantissimo anche l’apporto delle persone che amiamo e che ci circondano.
– Christian D’Avanzo